(2012, Autoprodotto)
1. IIIIIII
2. IIIIIIII
3. IIIIIIIII
4. IIIIIIIIII
5. IIIIIIIIIII
6. IIIIIIIIIIII
Che noia. Ho cercato a lungo l’ispirazione per scrivere l’inizio di questa recensione, ma non ho trovato di meglio: Years Past Matter è un disco noioso, ripetitivo e privo di idee; terminare l’ascolto è una sorta di sfida, soprattutto se lo si deve fare più di una volta. Ok, forse sono stato un po’ drastico: in fin dei conti Colin Marston (già mente dei folli Behold… The Arctopus) non è l’ultimo arrivato, sa suonare alla grande e in passato ha anche dimostrato di essere un buon compositore. E allora, dove risiede il problema?
Partiamo da un presupposto: quattro dischi in cinque anni scarsi, per una black metal band (sia pur “progressiva” e sperimentale), sono un po’ troppi. Se poi i riff, le strutture e in generale tutte le soluzioni utilizzate sono sempre le stesse, riproposte di volta in volta cedendo al più infimo riciclaggio auto-referenziale, potete immaginare quale possa essere il risultato finale. La noia di cui parlavo più su non deriva tanto dal disco in sé (che rappresenta pure un piccolo passo avanti rispetto al soporifero Diotima, uscito lo scorso anno), quanto dalla frustrazione che si prova ad ascoltare sempre gli stessi riff – tre di numero, con infinite variazioni -, le stesse funamboliche costruzioni ripetute con una costanza sorprendente, la stessa identica produzione, le stesse melodie, la stessa fastidiosa tendenza al tecnicismo fine a sé stesso, senza soluzione di continuità da ormai tre dischi.
E’ un vero peccato, perché il primo album (omonimo) dei Krallice era molto interessante, e ci aveva fatto ben sperare per il futuro: le melodie – vero punto di forza del platter – erano incastrate alla perfezione, ed il lavoro chitarristico era sì caratterizzato da frequenti tecnicismi, ma allo stesso tempo sapeva essere vario ed incisivo; un sound di ampio respiro, insomma, in cui i nostri si muovevano con grande padronanza, tra saliscendi emozionali ed atmosfere sognanti. Years Past Matter, invece, è un disco autocelebrativo – potremmo definirlo masturbatorio -, un’accozzaglia di virtuosismi che dovrebbero essere al servizio delle melodie ma servono soltanto a rendere più piatto il risultato finale. Sa essere noioso e ripetitivo nonostante i milioni di note sparati a velocità assurde, nonostante i continui cambi di tempo, nonostante le costruzioni astruse e funamboliche, che pure dovrebbero tenere ben desto l’ascoltatore.
In questo senso è un perfetto successore di Diotima che, se possibile, era ancora più brutto. Rispetto a quest’ultimo, troviamo meno armonie dissonanti e più compattezza complessiva, ma la morale non cambia: una volta terminato l’ascolto, quello che rimane è soltanto un po’ di stordimento per la quantità di note incastrate in mille modi diversi; per il resto, vuoto cosmico. Nessun coinvolgimento emozionale, è tutto freddo, asettico e auto-referenziale. E’ un disco concepito per i soli membri della band, e per i pochi che sapranno apprezzare i continui virtuosismi. I Krallice si sono confinati in una propria dimensione, totalmente impermeabile; e così, in totale isolamento, sembrano scrivere ormai da anni sempre lo stesso, lunghissimo pezzo. In fondo, però, ai Krallice va concessa una cosa: non sono certo inclini al compromesso. Vanno avanti per la loro strada, scrivono la musica che gli piace senza curarsi delle critiche che ricevono. E fanno benissimo. Io, però, il loro prossimo disco mi sa che non lo ascolto.
4.5