(Autoproduzione, 2011)
01. Head Down (3:45)
02. Harmonic Way to Breath (3:47)
03. The Romantic End (4:21)
04. Interlude (0:44)
05. The Constant (3:07)
06. My December (3:56)
07. The Faith of Faithless (2:57)
08. The Missionary (4:10)
09. The Archetype (3:02)
10. Saturno Rege (7:10)
La malizia del recensore medio italiano vede nel cambio di genere di una band un forzato adattamento alle logiche del mercato e a quello che più risulta alla moda, a seconda del periodo. Informandomi un po’ su questi Mainline scopro che sono torinesi, tutti sotto i trent’anni d’età, e che questo Azalea costituisce il secondo album della loro carriera. Dopo un primo disco dalle venature piuttosto thrash (From Oblivion to Salvation, uscito per Dioxzion Records ben cinque anni fa), con qualche influenza data dagli onnipresenti Killswitch Engage, la band decide di concentrarsi, appunto, sul versante metalcore del proprio sound. Una scelta che, considerando i tempi, potrebbe anche essere vista come piuttosto impopolare, data la lenta morte alla quale il genere pare essere soggetto. E allora si aggiunge alla miscela un po’ di post-hardcore – che, a onor del vero, era già parte integrante dello stile della band in tempi non certamente sospetti – e, d’un tratto, si esce dal già sentito (troppe volte) e si può sperare in qualcosa di più.
Il disco è composto da dieci tracce che scorrono piuttosto facilmente una dopo l’altra, merito della durata relativamente breve dei singoli brani (fatta esclusione per la suite finale “Saturno Rege”), ma anche a causa dell’inevitabile somiglianza reciproca delle canzoni. I suoni sono bilanciati in maniera perfetta e non si riscontrano difetti di sorta da questo punto di vista. Anzi, le parti melodiche costituiscono il vero punto di forza dell’album, arrivando a somigliare talvolta alle atmosfere eteree e dilatate, ricreate da sua maestà Chino Moreno (Deftones). Assieme alla melodia, c’è anche spazio per le sfuriate di cui si parlava prima. In stile post-hardcore a la Misery Signals, per intenderci, i Mainline arrivano a mescolare con sapienza i generi, complicando un po’ la vita dell’ascoltatore ma rendendo un po’ più personali le composizioni. Su tutte si segnalano i casi di “The Romantic End” e “The Missionary”, che, forse perché un po’ più fuori dalle linee guida, finiscono per risaltare sulle altre.
Non resta molto da dire: un lavoro di indubbia qualità sia dal punto di vista strettamente sonoro, che per quanto riguarda la costruzione dei singoli brani. Che, tuttavia, non gioca certamente sui semplici riff catchy al quale buona parte degli ascoltatori è abituata. Forse una maggiore personalizzazione in fase compositiva avrebbe aiutato, ma c’è pur sempre tempo per migliorare, considerando il tutto come un’evoluzione del proprio stile.
6.5