Se questo secondo album degli inglesissimi Malefice volesse rappresentare veramente un’”alba della rappresaglia”, beh, potreste essere facilmente compresi come eventuali franchi tiratori.
Al debutto su major (Metal Blade), infatti, quello proposto non è che un’acerba miscela di metal-core ed influssi “meshugghiani”, che di tanto in tanto si apre nelle melodia struggente ed apocalittica, ed altre volte preferisce sfociare in assoli ben congeniati. Un pizzico di stacchi come la nuova scuola di death-core comanda, un’equalizzazione dei suoni che predilige spesso delle linee di chitarra elastiche e “gommose” (conoscete gli effetti che consentono alla chitarra di Herman Li, Dragonforce, di ricavare suoni che ricordano vagamente il videogioco “Pacman”? Ecco, così.), ed ecco che il piatto è pronto. Buona idea, dunque, ma pur sempre una miscela che rimane acerba. Quello che manca, infatti, è quel “di più”, quella punta di originalità che avrebbe potuto portare un album nella media a risaltare di fronte a tanti compagni di scaffale.
Le dieci canzoni del lotto non decollano mai veramente dalla buone base di tecnica da cui partono, e troppo spesso l’album risente del cronico male del già sentito, che affligge (troppo) spesso il genere tutto. Altre volte non si capisce dove si voglia andare a parare, e l’idea che fa scaturire il pezzo si perde in deliri quasi post-(lascio a voi il termine da piazzare dopo il trattino) che ben poco riguardano il resto, salvo poi riallacciarsi al riff portante nel finale, come a voler portare a casa il risultato.
I punti validi, d’altro canto, sono indubbiamente una registrazione qualitativa e capace di far distinguere bene le strutture interne delle singole tracce, oppure ancora un paio di brani veramente coinvolgenti, veloci, precisi e ben strutturati. Canzoni come “Abandon Hope”, o “An Architect of Your Demise”, per esempio, basano la propria evoluzione su riff convincenti che, se non venissero troppo spesso interrotti da rallentamenti al limite dell’anonimo, consentirebbero una maggiore linearità. La traccia finale, intitolata “Sickened”, è probabilmente una granitica ed intricata pietra musicale, che nella sua forza e pesantezza chiude il disco e lascia ben sperare per un maggiore impegno in campo compositivo, che non si adagi troppo sugli stilemi dei generi in voga e che, anzi, si lasci coinvolgere in una sperimentazione maggiore di quella attuale. Altrimenti, le speranze di procedere ulteriormente su questa scia non lasciano grandi spazi di immaginazione.
Voto: 5