(Reprise Records, 2014)
01. Tread Lightly
02. The Motherload
03. High Road
04. Once More ‘Round The Sun
05. Chimes At Midnight
06. Asleep In The Deep
07. Feast Your Eyes
08. Aunt Lisa
09. Ember City
10. Halloween
11. Diamond In The Witch House
La musica dei Mastodon me la sono spesso immaginata come acqua: una materia fluida, vitale, ma tremendamente potente e imprevedibile. Un po’ forse grazie alla cascata di note e di colpi sprigionata dai musicisti, in particolare da quel fenomeno di Brann Dailor, che al posto delle mani ha frullatori, e dalla sapiente commistione tra generi estremi dopata di rock settantiano che nel corso degli anni tutti e quattro hanno saputo sciorinare con classe indiscussa (voce di Brent Hinds in sede live a parte). Per chi li segue dagli esordi ogni appuntamento discografico s’è rivelato un cocktail ultrastrong e dissetante allo stesso tempo (si pensi alla miscela di influenze della triade Remission-Leviathan-Blood Mountain), alle volte fin troppo arzigogolato – come Crack The Skye – in altre occasioni decisamente zuccherino come The Hunter.
Anche questo nuovo Once More ‘Round The Sun è come acqua, ma purtroppo di quella che scorre via senza spaccare i ponti, o quella che – senza per forza abbassarsi citando il turbinio dello sciacquone – si abbatte invano sull’impermeabile della vecchia pubblicità della Barbour. Mi fa effetto dirlo, ma i Mastodon sono diventati un’altra band, non c’è santo che tenga. Il torrente in piena del pleistocene sembra aver smesso di scrosciare impetuoso e si è trasformato in un fiume placido che scorre a valle dritto dritto fino al mare senza perdersi in meandri o senza incontrare ostacoli. Se in molti avevano preso The Hunter come una genuina reazione ai barocchismi pomposi e stucchevoli di Crack The Skye, è davvero difficile collocare questo nuovo disco in una scala evolutiva dei quattro di Atlanta. Come sempre la produzione è ineccepibile, i suoni moderni seppur prestati in più di un momento al ripescaggio di atmosfere hard-prog di quarant’anni fa, ma l’impressione a freddo è che i Mastodon profumino davvero di naftalina come i cadaveri impagliati dei loro idoli parrucconi-e-frangetta anni settanta, e qui non si tratta più di sfoggiare l’immagine di Randy Rhoads serigrafata sulla pelle della grancassa, ma di ereditare le sonorità di un’intera generazione di rockers rileggendole e interpretandole (per fortuna, almeno) in chiave moderna. E allora si va giù duro con anthem da high school, riff geniali ad esaltare atmosfere talvolta ispirate e molto spesso scialbe e un immaginario a metà tra Dungeons & Dragons e gang di teenagers emarginati/sballati che si ritrovano a fumare e fantasticare chiusi in garage. Ma non c’è Elio a sdrammatizzare la festa delle medie con venti ambigui o litri di aranciata amarissima. Qui c’è tanto hard rock e heavy metal rivestito da giubbotti di jeans (tanti Avanzi e pochi Fonzie, dunque), di quello che abbiamo ascoltato un po’ tutti per passione o per vie traverse, zeppo di assoli da guitar hero e voci impostate, l’abbecedario del ragazzo anni ottanta, insomma, forse degli stessi Mastodon che guardano al loro passato con occhi di quarantenni in cerca di emozioni che difficilmente si potranno ripetere oggi se non attraverso la rievocazione.
Se le iniziali “Tread Lightly” e “The Motherload” riprendono il discorso lasciato in sospeso col precedente album, col riff iniziale di “High Road” sembra per pochi istanti di ritornare ai fasti del passato, ma con la ristampa di Remission da pochi mesi in negozio, a qualcuno verranno sicuramente le lacrime agli occhi, e più per un grosso sbadiglio che per commozione. Il pezzo è comunque bello, anche se il video promozionale ha lo stramaledetto potere di trasformarlo in una mezza farsa. Il brano che dà titolo al disco fila via in meno di tre minuti e salvo una menzione per l’unica evidente prova vocale di Hinds tra gli undici pezzi non merita altre attenzioni, mentre “Chimes At Midnight”, oltre che a ricordare un titolo qualsiasi degli Iron Maiden, profuma di New Wave Of English Heavy Metal suonata in la. Si prosegue poi con la pregevole “Asleep In The Deep”, la più pesante “Feast Your Eyes” e altri quattro pezzi che definirei sulla stessa lunghezza dei precedenti per fare un po’ d’economia di aggettivi. Non molte le impennate in generale: artwork come sempre prezioso a parte, c’è la carina – ma non di più – “Tread Lightly” posta in apertura, l’heavy metal che oscilla tra il trascinare e il trascinarsi della già citata “Chimes At Midnight”, alcuni fraseggi di chitarra da manuale su “Aunt Lisa” (ma che dire invece del suo coretto fanciullesco messo in coda? Qualcuno lo va a dire ai Faith No More di “Be Aggressive”?), il finale di sette minuti abbondanti e decadenti affidato a “Diamond In The Witch House” (con tanto del sempreverde Scott Kelly dietro al microfono) e molte altre idee sparse qui e là che per essere isolate e apprezzate appieno richiedono e meritano ben più di un ascolto.
I refrain catchy di “The Motherload”, “Asleep In The Deep” e di “Ember City” – per gentile concessione canora di Brann Dailor – piuttosto che i ricami chitarristici duellanti di Hinds e Kelliher distribuiti con continuità per tutta la durata del disco (il basso di Sanders è l’eterno assente del lotto, a differenza della sua voce, sempre ben accetta), dimostrano che le capacità compositive e l’estro della band non sono sfumate, tutt’altro, ma non sanno generare momenti memorabili come in passato: di certo si fanno ascoltare e pure con certa piacevolezza, e se colpiscono sul momento, stranamente scoloriscono sulla lunga distanza perdendosi nelle effimerità di un dejà vu, sebbene di alta classe. Del resto la semplicità di riff presenti in brani come “March Of The Fire Ants” o “Blood And Thunder”, tanto per citarne due dei più celebri, ha da tempo lasciato spazio ad un songwriting molto più elaborato, cifra positiva ed encomiabile dell’intento costante di migliorarsi e superarsi della band. Eppure, senza lagnarmi come un nostalgico, di certa sana ignoranza su questo disco sembra sentirsi un po’ la mancanza. Non tanto per ritornare a dieci anni fa – questo sarebbe un passo falso per artisti di tale caratura e una pretesa ridicola da parte di un fan della prima ora – più che altro per rendere i pezzi un tantino meno ricercati ma paradossalmente più personali. Sarà che il grezzo mastodonte, evolvendosi nel corso delle ere, sia diventato una versione raffinata di Dumbo o di Babar? Speriamo di no, o almeno, se sì non troppo, perché proprio su un paradosso sembra basarsi questo disco e forse la discografia futura dei Mastodon: da una parte la tensione verso le sonorità ritrovate dell’adolescenza (spero di non sbagliarmi), dall’altra lo scoglio apparentemente inevitabile ma assai invidiabile della maturità artistica. Once More ‘Round The Sun resta quindi un ottimo disco per sedicenni che vogliano avvicinarsi all’heavy attraverso una valida band in voga oggi. I quarantenni/cinquantenni e un po’ tutti gli altri (nostalgici e non) possono tranquillamente rimettere sul piatto Leviathan oppure che ne so, a scelta, optare per Ozzy Osbourne o i Thin Lizzy.
6.5