(Ipecac Records, 2013)
1. Dr. Mule
2. City Dump
3. American Cow
4. Tie My Pecker to a Tree
5. Dogs and Cattle Prods
6. Psycho-Delic Haze
7. 99 Bottles of Beer
8. I Told You I Was Crazy
9. Stump Farmer
10. You’re in the Army Now
11. Walter’s Lips
12. Stick em’ Up Bitch
Tipi strani i Melvins. Di loro, partiti come nipotini dei Black Sabbath, diventati poi padrini dello sludge e zii del grunge e finiti col raggiungere lo status di icone dell’underground, un po’ tutto si può dire se non che si siano davvero meritati una nicchia nell’olimpo del rock. Con alle spalle una discografia che mette a dura prova sia il portafoglio dei collezionisti che la memoria dei fan, e un estro che definire strampalato è dire poco, il combo originario di Montesano (WA, USA), da sempre guidato dallo zoccolo duro Buzz Osborne–Dale Crover, ha compiuto quest’anno i trent’anni di carriera e per l’occasione licenzia il suo diciannovesimo parto discografico in studio. Il titolo è Tres Cabrones, e a giudicare dalle dichiarazioni rilasciate in vista della sua imminente uscita, rispecchia perfettamente sia un lo stile che l’intento della band adottati per l’occasione.
Sì, probabilmente avrete capito: ‘tre caproni’ non allude certo ad una sacra trinità luciferina (spero di non illudere le aspettative dei lettori satanisti), ma più semplicemente all’appellativo che, in un gergo squisitamente campagnolo, si darebbe ad un branco di brocchi alle prese con il rock (che King Buzzo si sia ispirato alle celebri incazzature Sgarbiane?). Ma aspettate, non fraintendetemi, la grazia caprina dei Melvins è tutt’altro che sempliciotta e scontata, e come sempre – come cifra stilistica tipica della band – si rivela un vero e proprio punto di forza. Se infatti con lo scoccare dei trenta ci si potrebbe aspettare oltre che alla ‘maturità artistica’ anche un’insidiosa ‘senilità artistica’, i Melvins stupiscono un’altra volta pure i più scettici e si inventano – o forse sarebbe meglio dire inscenano – un ritorno al passato in piena regola. Messi un attimo da parte i Big Business e Trevor Dunn (compagni di viaggio negli ultimi anni) ecco l’ennesimo ed insolito stravolgimento della già camaleontica line-up: Crover, il potente batterista ‘oggetto dei desideri’ di Kurt Cobain, slitta per l’occasione al basso e al suo posto rientra a distanza di 29 anni il primo a sedere dietro alle pelli nella band, tale Mike Dillard, all’anno batterista per un mese nei Fecal Matter, prima formazione del già citato K.C. (insomma, un intreccio alla ‘Beautiful’ se dai recessi di uno studio televisivo lo si spostasse nella Seattle di metà anni ottanta)… come specificato precedentemente, l’intento era quello di ripescare dalla cella frigorifera la famigerata provetta dalla quale era scaturita l’epidemia Melvinsiana e di riaprirla in un habitat che imitasse quello originale.
Il disco suona strano, e non tanto per gli insoliti rimaneggiamenti dell’organico, ma perché rispetto alle stamberie degli ultimi dischi – diciamo pure a partire dal contratto firmato con la Ipecac – sembra di essere davvero tornati ai tempi d’oro dei nostri. Prendete due pezzi come “City Dump” e “American Cow”, chiudete gli occhi, figurateveli come coda di Ozma, Bullhead o Houdini, e il vostro teletrasporto temporale è bell’e fatto. Sembra che gli ex ragazzi di provincia abbiano restaurato le pesantezze estenuanti e (auto)ironiche degli esordi, contraddistinte da un miscuglio di poca scienza + volumi a manetta, insomma. Lasciando da parte “Dr. Mule” (che puzza di Stag), la tirata snervante di “Dogs and Cattle Prods” e i riffoni tamarri di “Psychodelic Haze” sono ottimi esempi, mentre gli ultimi due brani della tracklist (una cover dei Lewd e il finale di “Stick ‘Em Up Bitch”) si staccano dal coro e aggiungono qualche bpm in più ad un disco dall’incedere quasi bradipeo.
Non tutto quel che luccica è oro, però. Infatti il perché di tanto entusiasmo suscitato all’ascolto sta forse dietro al fatto che i pezzi siano all’80% dei ripescaggi da vecchi split, compilation e demo, e siano stati registrati con tecniche moderne ma con attitudine all’antica, operazione, questa, che potrà far storcere il naso ai succitati collezionisti ma che viceversa dovrebbe far battere forte il cuore dei fan di lunga data. Che dire allora? Nulla di nuovo sotto il sole. Nel bene e nel male i Melvins sono pur sempre i Melvins, e a parte qualche momento scemotto a cui negli anni ci hanno abituati (vedi “Tie My Pecker to a Tree”, “99 Bottles of Beer” e “You’re in the Army Now”, brani tanto divertenti quanto inutili) il disco è riuscito bene: non sarà un capolavoro, ma di sicuro il modo migliore per festeggiare il trentesimo compleanno riuscendo ancora a spegnere tutte le candeline sulla torta in un solo soffio.
7