(Nuclear Blast, 2012)
1. I Am Colossus
2. The Demon’s Name Is Surveillance
3. Do Not Look Down
4. Behind The Sun
5. The Hurt That Finds You First
6. Marrow
7. Break Those Bones Whose Sinews Gave It Motion
8. Swarm
9. Demiurge
10. The Last Vigil
Recensire un disco dei Meshuggah non è certo un compito semplice. Partendo dal presupposto che non è mai troppo facile dare un giudizio ad un disco (dal momento in cui è richiesto un curato lavoro d’ascolto, ma è anche necessario non far trasparire troppo le proprie aspettative, delusioni e gusti personali) potrete immaginare cosa significhi dover fare ciò riguardo ad un nuovo album dei Meshuggah, il quale suscita grande interesse tra pubblico e critica ponendo un bersaglio sulla fronte del recensore stesso, verso il quale potranno essere scagliati il più grande degli insulti o la più garbata approvazione. Da considerare inoltre il fatto che la complessità stilistica del combo di Umeå rende complicate le cose a priori: un album dei Meshuggah ha la peculiarità di farsi odiare in un primo momento, per poi farsi amare totalmente o viceversa.
Dopo tutti questi convenevoli passiamo a parlare di Koloss, l’ultimo parto discografico della band, uscito per Nuclear Blast a quattro anni di distanza dall’ottimo predecessore ObZen. Il nuovo album è stato anticipato dal singolo “Break These Bones Whose Sinews Gave it Motion”, a cui è seguita un’abbondante pioggia di responsi di fan ed addetti ai lavori, tra chi elogiava l’andamento lento, quasi-monocorde ed apocalittico del brano, nel barlume di speranza di un ritorno alle sonorità lente e claustrofobiche di dischi come Nothing, Catch 33 e Chaosphere, e chi vi sparava addosso i peggiori commenti per via della ripetitività del brano nei suoi sette minuti di durata, e lasciava poco di che sperare per il disco intero.
Messi finalmente di fronte al platter completo la prima sensazione è di forte smarrimento: Koloss è un disco che tenta di aggredire l’ascoltatore solo dopo averlo frastornato a dovere con l’andamento pachidermico di “I Am Colossus”, un brano lento, alienante, basato su una ritmica fondamentale che si aggroviglia su se stessa con poche variazioni ed i tipici accenti di batteria “spostati” di Thomas Haake, ed il tutto avviene laddove ci si aspettava un brano di maggiore impatto. La sensazione di smarrimento prosegue per tutta la durata del disco, la cui formula deriva da quella adottata in ObZen, con brani molto variabili nelle strutture, nelle ritmiche e nella velocità di esecuzione. Oltre ad episodi di lentezza assoluta come la sopracitata “I am Colossus” i Meshuggah propongono anche brani dalla velocità inconsueta, per il loro sound, come “The Demon’s Name is Surveillance” e “The Hurt That Finds you First”: la prima propone un riff principale e un attacco di voce che riportano alla mente i Lamb of God (una band stilisticamente distante anni luce dal combo svedese), mostrando una struttura dritta ed affilata, nella quale le celebri ritmiche sbilenche della band si presentano solo nella seconda parte del brano. La seconda vede invece una sezione ritmica “sparata” con un tupa-tupa thrash-oriented a sorreggere un riff di chitarra dissonante. Un brano atipico per la band, tanto da risultare irriconoscibile e metterci nella condizione di capire che si tratta dei Meshuggah solo dopo l’ingresso di Jens Kidman con il suo inconfondibile timbro vocale (il vocalist in Koloss si rende protagonista di una delle sue migliori performance su disco, grazie ad un lavoro mirato ad incrementare l’espressività delle parti vocali). C’è un altro brano vagamente atipico all’interno del disco, ed è “Do Not Look Down” caratterizzato da un groove danzereccio che ricorda gli episodi più ritmati di Nothing, in cui i tipici ritmi della band si uniscono ad un feeling pseudo-funky. Da segnalare come momenti migliori del disco i brani “Demiurge” e “Behind the Sun” (quest’ultima il vero masterpiece dell’intero platter), nei quali Kidman e soci propongono ritmiche monolitiche, in linea con il sound dei dischi precedenti.
Koloss non è certo un disco esulo da difetti, e chi scrive è un forte sostenitore delle band che evolvono il proprio sound, ma al tentativo dei Meshuggah di parlare una nuova lingua, attraverso le innovazioni stilistiche apportate in questo disco, manca quella “fiamma” che ha contraddistinto le produzioni della band sino ad oggi. Un altro neo fondamentale dell’album è la produzione che, dopo un disco come ObZen, ci aspettavamo essere altrettanto claustrofobica ed oppressiva, ma a conti in mano manca quel senso di soffocamento e prigionia che abbiamo provato con gli altri album: manca di brutalità, manca l’annichilimento totale.
In sostanza Koloss è un disco valido, che gioca tutto sulla varietà e che più di qualsiasi altra produzione dei Meshuggah si avvicina ad un suono fruibile anche dal tipico “metallaro medio”, ma in cui non tutti gli episodi sono all’altezza del nome dei fuoriclasse svedesi.
L’impressione è quella di una band che si è accontentata di scrivere dieci brani validi, ed a noi non rimane altro che una sensazione amara in bocca per quello che il disco è, e per quello che poteva essere. Koloss sarà pure un buon lavoro, ma da coloro i quali hanno fornito un nuovo modo di concepire il metal non ci accontentiamo di un album semplicemente bello.
7