Diamo I numeri.
Anno domini 1996 I Metallica danno alle stampe “Load”, seguito (a cinque anni di distanza) del fortunatissimo “Metallica” (altresì detto “Black Album”). Non è certamente un flop, anche grazie ai milioni di metalheads che sono in trepidante attesa, ma la miscela spenta di hard rock e riff sbruffoni non rende certo giustizia. E l’impero scricchiola.
1997: ”Re-Load”, ad un solo anno di distanza, fallisce prevedibilmente il tentativo di rialzare le sorti della situazione. E’ infatti un insieme di b-sides e rimasugli vari dell’album precedente. Stesso stile, stesso impatto, stessa caduta.
Passano altri 6 anni, in cui gli unici passi avanti, se così li si vuole definire, sono “Garage Inc”, lodevole sotto alcuni aspetti, e “S&M”, che stanca presto ma almeno ha il pregio di rivelare la band sotto luci diverse rispetto a quelle a cui tutti erano stati abituati. In mezzo, inoltre, c’è la famosa battaglia contro Napster (in cui, a dirla tutta, i nostri fanno la figura di Napoleone a Waterloo), e c’è la disintossicazione di Hetfield, prontamente documentata nel dvd “Some Kind of Monsters” (2004), ultima frontiera del branding, capostipite del concetto di commercializzazione a cui tutte le “worldwide band”, infine, giungono.
Salto indietro, A.D. 2003: negli Stati Uniti esiste una legge governativa denominata come “Three Strikes Law”, che prevede forme aggravate di pena detentiva nel momento in cui un cittadino venga scoperto per la terza volta a commettere reati particolarmente gravi. I Metallica, tutto ciò, lo sanno molto bene, e così si preparano fino al minimo dettaglio prima di lanciare quello che sarà “St.Anger”. Con tutti i cecchini puntati contro, dopo aver subito l’abbandono del massiccio Jason Newsted rimpiazzato dall’altrettanto massiccio Robert Trujillo, in piena assolata estate, il 5 Giugno 2003 la meteora impatta il terreno. E, in quanto meteora, appunto, dura lo spazio di un attimo. Tutti fanno fuoco contro il neonato, e a ben poco servono le remore di un Lars Ulrich che, quasi spazientito, afferma di aver voluto simulare con il suono del suo rullante proprio quell’atmosfera da carcere a cui il titolo si riferisce. I Metallica vengono relegati, si fa per dire, alla sola sede live. L’unica in cui ancora, nonostante qualche pecca tecnica, riescano ad entusiasmare. I concerti sono quasi tutti da sold out, e come di consueto la massa umana che affolla i festivals di tutto il mondo è oceanica.
Altri cinque anni, A.D. 2008: i (franchi) tiratori sono ancora tutti lì, coscienti del fatto che gli stessi Metallica, scarcerati sulla buona condotta, di tempo per riflettere ne hanno avuto. Gli appelli precedenti all’uscita si sprecano. Nel frattempo il capolavoro “Master of Puppets” ha raggiunto il ventennale (1986-2006…ma non è ancora morto!), e per l’occasione nel corso dei succitati concerti la band ha deciso di riproporlo in versione integrale. Un ripasso, un “come eravamo”, o forse un “come vorremmo essere di nuovo” che fa decisamente bene. Dopo gli atteggiamenti seri e le prese di posizione più da capo di stato che da rockstars, il cielo si rischiara, la band si rilassa, e torna a suonare per il puro piacere di farlo (oltre all’ovvio piacere di vedere incassare quello che rimane, sempre e comunque, il frutto dei propri sforzi). Il Thrash con la “T” maiuscola, mescolato alle venature di speed metal, e a quella sana gioia che solo Hetfield (e, badate bene, solo QUEL TIPO di Hetfield) sanno farti provare quando sussurrano “Yeah”, sono tornati. Ed è proprio da qui che può cominciare un nuovo capitolo (in tutti i sensi). Una nuova recensione.
”Death Magnetic” si apre con i battiti di un cuore ed una languida chitarra che rende molto l’atmosfera di suspance. La voce di Hetfield si fa attendere, arrivando solo poco prima della soglia dei due minuti, quando il pezzo è stato scandito da un ritmo di marcia abbastanza cervellotica. Questa “That Was Just your Life” si snoda lungo i suoi sette minuti e oltre, facendo tornare alla mente da un lato (quello strumentale) i toni del “Black Album”, e dall’altro (il cantato, in cui si immagina facilmente un Hetfield che scuote la testa al ritmo di quei “Like a…”, sempre pronti a scandire un nuovo verso) quello del successivo “Load”. Eppure il tutto è più convincente, nonostante un po’ troppo lungo e, di conseguenza, leggermente ripetitivo. Sarà forse merito dei due assoli (con il secondo che rende paurosamente giustizia alle epiche cavalcate dei Four Horsemen)?
Si passa poi a “The End of the Line”, di poco sotto agli otto minuti, e che fa subito sentire il riff che si farà garante di portare la canzone al suo termine naturale (caratteristica, peraltro, abbastanza comune in quasi tutti i brani del nuovo album, segno che talvolta una semplificazione ed un ritorno alle proprie radici può giovare). Un pezzo dalle venature leggermente “southern”, che però ben si intreccia con i classici ritmi cari ai nostri e che anche in questo caso esplode in un assolo finale (ottimo, fra l’altro, l’abbozzo che se ne dà intorno ai quattro minuti, per poi svilupparsi definitivamente subito dopo) che dosa tecnica e wah wah. Così come ottima è la chiusura in crescendo, sotto l’”epitaffio” di “[..]the slave becomes the master[..]”.La terza traccia, “Broken, Beat & Scarred”, viaggia abbondantemente sopra i sei minuti ma, purtroppo, risulta poco più che un riempitivo. Buono il tentativo di cambio di tempo (seguito, manco a dirlo, da pregevole assolo) intorno alle metà del pezzo, ma sono comunque troppi i rimandi all’orientalità di un pezzo come “Wherever I May Roam”, nonché i riferimenti a qualche passaggio di “Load” o “St.Anger”. Il pezzo, purtroppo, si dimentica presto.
Si giunge, così, al primo vero e proprio singolo, “The Day that Never Comes”. Come sollevato da molti sin dal primo ascolto, il pezzo ricorda molto un altro grande successo del genere, “Fade to Black”. E’ un brano più calmo rispetto a ciò che si è sentito fino ad ora, della durata di quasi otto minuti, e con una sezione ritmica alle percussioni che fa tornare in mente l’immediatezza di “…And Justice for All”, o gli aspetti più scarni, ma non per questo meno pregevoli e roboanti, di un “Kill ‘Em All” d’annata. Anche qui l’assolo prevede armoniche alte che in certi passaggi fanno ritornare alla luce i legami mai negati fra questa scuola (Bay Area) di Thrash, e gli ispiratori Iron Maiden, anche se ovviamente velocizzati e “imbastarditi”. La canzone scorre bene ed in maniera piacevole, e si passa così alla successiva “All Nightmare Long”, della durata pressoché identica. Dopo una breve (e, orami, consueta) introduzione d’atmosfera il brano prende la sua via, velocizzandosi, e caratterizzandosi così come uno dei più diretti e, da un certo punto di vista, “in your face”. Un buon compromesso fra la modernità e il classico sound, con un Hetfield abbastanza marziale ed un Kirk Hammett che non si risparmia. Indubbiamente un pezzo che, all’interno di un “St.Anger” qualsiasi avrebbe fatto la differenza, nonostante la durata.
Siamo così arrivati alla metà del disco, e prima di passare a “Cyanide”, vero spartiacque del disco, è d’obbligo una riflessione parziale. Nel corso del tour mondiale del 2006 i nostri presentarono alle platee di tutto il mondo un nuovo brano, scherzosamente intitolato “New Song”. Quest’ultimo soffriva un po’ degli stessi difetti che avevano accompagnato “St.Anger”, ossia l’eccessiva durata, i troppi cambi di tempo (con conseguenti cambi di riff, che portavano ad una composizione un po’ sconclusionata), ed una resa live poco convincente. A distanza di due anni la band pare aver risolto gran parte dei problemi, semplificando dove si poteva la struttura dei brani, mutando totalmente la direzione intrapresa dalla resa dei suoni (merito, probabilmente, del nuovo produttore Rick Rubin), e rendendo convincente i vari brani nonostante la loro durata.
Tuttavia, la seconda metà dell’album si apre con la suddetta “Cyanide”, e con il suo (incomprensibile) ritornare al ritmo stoppato scandito dal basso di Trujillo. Un brano che sicuramente non passerà alla storia come uno dei migliori, e che inspiegabilmente è stato scelto come uno dei brani deputati a fare da apripista all’album. Come al solito, è apprezzabile l’assolo, ma ciò non basta a salvarlo. Si passa così a “The Unforgiven III”. Sulla scia dei precedenti due capitoli, il ritmo viene sensibilmente rallentato, in favore di un atmosfera più riflessiva e, per certi punti di vista, “pop”. Con la chiara aspirazione volta al convincimento di un pubblico sempre maggiore, e forse la segreta aspettativa di ricreare una nuova “Nothing Else Matters”, il brano vince (nel senso che non annoia ed è ben strutturato), ma non convince del tutto, più che altro per l’idea di “già sentito”, anche se non necessariamente nella produzione dei Four Horsemen.
A meno tre dalla fine si sviluppa “The Judas Kiss”, che riallinea le tonalità verso quelle sentite nella prima parte del disco, strizzando l’occhio anche ad alcuni lavori precedenti e riportando in primo piano la presenza e la potenza degli assoli (ancora una volta al wah wah) di Hammett. Scelto come ulteriore singolo, il genere ritorna quello più veloce e marziale e, seppure non costituisca niente di assolutamente originale, rialza le sorti finora un po’ smorzate della seconda metà del disco. O, almeno, fa da assaggio alla strumentale, e seguente, “Suicide and Redemption”. Il penultimo brano è infatti una lunga ouverture (10 minuti circa) che in qualche mondo fa venire in mente i Dream Theater nella loro veste più propriamente Thrash (quella, per intenderci, di “Train of Thought”) , e che dà così modo a tutti i componenti di mostrare le proprie (peraltro mai messe in dubbio) doti pratiche. Anche qui i cambi di tempo e le inaspettate virate dal lento al veloce si sprecano. Probabilmente, accompagnata da qualche lirica, o da un testo anche minimale, avrebbe potuto rendere di più. Allo stesso tempo, però, è innegabile la soddisfazione data dalle tinte epiche che il brano prende intorno alla fine del quarto minuto, e che fanno subito capire con chi si ha a che fare.
Signore e signori, siamo arrivati alla fine del disco. L’ultimo pezzo, “My Apocalypse”, cambia nettamente gli equilibri, poiché un finale migliore sarebbe stato difficile da chiedere. Per l’occasione, infatti, anche la durata si snellisce, e si passa a cinque minuti netti, in cui è concentrato tutto (e a stento mi trattengo dallo scrivere in maiuscolo) ciò che i Metallica avrebbero dovuto sviluppare nel corso di questi anni. Velocità, testo infuocato, una voce in grande spolvero, un riff che potrebbe non finire mai e non per questo stancherebbe, ed un assolo a tutta velocità (seguito da un grande duetto chitarristico) che non lascia spazio a dubbi.
Nell’ironia della sorte, i brani totali sono dieci, così come in decimi è il voto che ogni recensore si trova a dover assegnare. I conti, quindi, sono presto fatti, salvo per una maggiorazione che mi sento di dare “d’ufficio” ad una band che partendo dalle macerie ha saputo reinventarsi, proponendo un disco che è al contempo moderno e classicista, che li riscatta e li pone (nuovamente) fra le fonti d’ispirazione di ogni nuova leva che si rispetti, dopo anni di buio delirio musical-intellettuale. Attuali come non mai, sono tornati i Metallica.
Voto: 8