Prima di partire con la classica recensione, un paio di considerazioni. La scena metal, in Italia più che in tanti altri paesi d’Europa, ha sempre rivestito un ruolo piuttosto marginale e a essa sono spesso stati attribuiti appellativi come “musica di nicchia”. Ciononostante, e spesso con dura fatica, i promoter di concerti (che spesso altro non sono che fan a loro volta della band ingaggiate) sono riusciti a costruire una solida tradizione di festival più o meno focalizzati su questo genere. Di fatto stabilendo l’esistenza di una tradizione metal in Italia, hanno quindi spinto molti giovani italiani a imbracciare uno strumento e passare da semplici ascoltatori a musicisti. Vi sono stati casi di successo eclatante anche per alcune band nostrane ma, come nel caso di diverse nazioni del Sud-Europa, l’Italia è rimasta fondamentalmente schiava dello strapotere di mercato proveniente da oltreoceano o, talvolta, dal nord-Europa. E, soprattutto, il successo delle band metal italiane (senza rilevanti distinzioni di sottogenere) è spesso più felice all’estero che qui in Italia (si pensi a Lacuna Coil e Rhapsody, ma anche agli inizi dei Linea 77). Con queste premesse, è tristemente normale come una band valida quanto i Mothercare, attivi da poco meno di vent’anni, sia tuttora solo relativamente conosciuta. Un gruppo, insomma, che agli addetti del settore non suona certo nuovo, ma che difficilmente ha lo stesso impatto che potrebbero avere altre bands storiche nel proprio paese d’origine. Se il “demerito” dietro a questo fatto sia da attribuire anche alle scelte di produzione indipendente, attuate dai sei veronesi nel corso degli anni, non è dato sapere. Quel che è certo, invece, è che la qualità della band nel corso degli anni è sempre stata di primo livello.
Il terzo album dei Mothercare si intitola “The Concreteness of Failure”, e rappresenta una sorta di concept album incentrato sul ruolo della crisi economica che ha caratterizzato questi ultimi anni. Canzoni come “The Slow and Proud March to Conformity” o “Ten Easy Lessons” altro non sono che metafore in chiave di metal, nelle quali è freddamente analizzato il comportamento acritico e piegato che è necessario tenere in una società che vede l’anti-conformismo come una minaccia ai modelli di sviluppo. La naturale conseguenza di ciò si trova nella rassegnazione che si legge lungo tutto l’album. Pur essendo musicalmente carico e certamente dinamico –con rimandi al thrash moderno che ricordano i Lamb of God e incursioni tecnologiche atte a far valere l’importanza dei Fear Factory– i testi sono generalmente votati all’aspetto più tragico e depressivo della vicenda. Il singolo, “Gateway to Extincion”, ricorda un po’ troppo da vicino gli Slipknot di “The Blister Exists”, ma rimane comunque di buon livello. La produzione è ancora una volta affidata al Bunkker Studio e l’album viene poi mixato al Kreative Klan Studio. I suoni vedono una netta predominanza della sezione ritmica, con batteria e percussioni in primissimo piano. Nemmeno le chitarre sono tuttavia messe da parte e costruiscono di fatto un buon dialogo fatto di riff taglienti e ben pensati. L’unico difetto da riscontrare è forse la ripetitività di alcuni schemi di composizione, oltre all’utilizzo solo sporadico che viene fatto delle parti pulite. Cosa che, a lungo andare, potrebbe relegare alcune fra le canzoni al ruolo di riempitivi.
Come per i precedenti album, quindi, le buone premesse ci sono tutte e si spera che questo possa essere il grande salto per una band che, negli anni, ha sempre dimostrato una forte costanza e impegno nel lavoro fatto.
Voto: 7