1. Centuries of Lies
2. Violent by Nature
3. Pain Inside
4. Visions in My Head
5. Back on Top
6. Violence
7. Inked in Blood
8. Deny You
9. Within a Dying Breed
10. Minds of the World
11. Out of Blood
12. Paralyzed in Fear
Un tempo la Relapse Records era un’etichetta amante delle peculiarità e scopritrice di talenti e band che, magari non avrebbero sfondato come, che so io?, i Metallica, ma dotati di una Personalità con la P maiuscola e di sonorità davvero particolari. Tutto ciò, col passare degli anni, ha dato senza dubbio alla label di Philadelphia lo status di culto, portandola, sempre più, fra le major. Sarà, forse, per questo che i gigioni americani, scopritori di Converge, Dillinger Escape Plan e Nile, per il 2014, hanno deciso di accaparrarsi un’occasione mettendo nella propria scuderia un moniker che, per la musica estrema, è più che una garanzia: gli Obituary. Quello, o, forse, il fatto che nel 1984 (già: sono passati trent’anni dall’acerbo progetto di Tampa Bay degli Xecutioner!), per ragioni anagrafico-cronologiche, non sono riusciti ad accaparrare il combo della Florida fin da subito. E ci sarebbero anche stati, ai tempi, sotto una casa discografica come la Relapse: non credo sia il caso di tessere l’ennesima apoteosi di quanto gli Obituary sian riconoscibili fin dal primissimo riff e quanto la voce di John Tardy sia entrata negli annali delle Vocals al Vetriolo.
Mi permetto questa lunga divagazione giusto per combattere l’horror vacui, il terrore della pagina bianca del recensore – o pseudo-tale – che s’appresta a dire la sua su un disco inutile. Suvvia, è tanto bello parlare con gli amici, magari proprio a un loro concerto, con una birra in mano e un altro paio nello stomaco, da presi bene, di quanto questi signori spacchino il culo ed abbiano un impatto incredibile, anche quando – com’era capitato qualche anno fa – avevano fatto l’errore di mettere in formazione quel cirrotico rincoglionito dal glorioso passato (ma pur sempre cirrotico rincoglionito) di Ralph Santolla, che ciccava gli assoli andando in freestyle ed entrando a caso, ignorando tre quarti delle parti ritmiche… Ecco: i cinque ragazzoni spaccano talmente, talmente, talmente tanto quando sono live che pure con una zavorra così possono risultare più che mai convincenti. Giurin giuretta, dal momento che li ho visti nel 2011. Messo da parte il signore di cui sopra e dato il benvenuto a Kenny Andrews nel reparto asce, dal vivo, ci posso mettere la mano sul fuoco, non ci saranno più problemi di assoli chitarristici. Però dischi nuovi no, dai. Va bene i trent’anni. Va bene il nuovo contratto con la Relapse da onorare. Però, dopo una carriera musicale stellare, in cui i primissimi dischi sono materia di religione per tutti gli amanti della musica estrema, quanto il mondo aveva bisogno di Inked in Blood?
Non sto a pontificare sulla questione ‘evoluzione musicale’ – gli Obituary sono fighi perché sono un inno apoteotico alla coerenza… degli ACDC in formato death metal! –, tanto più che l’unico pezzo che sa di ‘evoluzione’ (virgolette d’obbligo più che mai) del nuovo disco (“Visions in My Head”) ha riffoni quasi deathcore all’inizio e romantici e pantereschi arpeggi che si sovrappongono ad un mid tempo con chitarre distorte in fade out alla fine (trve fans degli Obituary: giudicate voi una cosa del genere!), quanto su attitudine e onestà musicale. Sì, il nuovo Inked in Blood è quadrato, mosheggia di brutto, preme sul tupa-tupa tutto sommato nei momenti giusti, John Tardy è sempre John Tardy (forse un filo meno graffiante del solito, ma si è sentito decisamente di peggio) e l’ignoranza regna sovrana: in una parola, è un disco degli Obituary. Ma è un disco di una band che, come tante altre che s’ostinano a far uscire roba nuova (Carcass? At the Gates? Suffocation? Giusto per non parlare dei ‘soliti’ Metallica…), non ha più nulla da dire. L’ho detto e son ben felice di ribadirlo: se mai ci fosse l’occasione di vederli dal vivo, loro, come quegli altri signori tra parentesi – a parte i Metallica che non mi son mai piaciuti, tranne un disco (indovinate quale!) –, me li vedrei più che mai volentieri, sapendo che godrei d’una scaletta incentrata su Cause of Death, World Demise, Slowly We Rot. D’altronde, ‘ste band dinosaure, dall’alto della loro grandezza e saggezza, lo sanno che, metallini d’ultim’ora a parte, chi li supporta dal vivo non è lì per l’ultimo singolo.
Per cui Inked in Blood va preso così com’è: un disco che può far muovere la testa nei primi due-tre pezzi e che inizia ad annoiare da meno di metà in poi (c’è uno spiraglio di ‘vera attitudine Obituary’ su “Out of Blood”, ma non vorrei dire amenità fuori luogo), ma che, se non altro, è un ottimo segnale che una delle band iconiche del death metal, dopo trenta impressionanti anni di attività e successo, è viva, vitale e pronta a esibirsi dal vivo. Ed è lì che li aspettiamo tutti.
5.5