(Roadrunner Records, 2014)
1. Eternal Rains Will Come
2. Cusp Of Eternity
3. Moon Above, Sun Below
4. Elysian Woes
5. Goblin
6. River
7. Voice Of Treason
8. Faith In Others
Tutto il mondo metallico era in spasmodica attesa per l’uscita del nuovo album di una delle metal band più famose del globo, gli svedesi Opeth. Si sa, il frontman Akerfeldt da anni ha deciso di abbandonare l’utilizzo del suo maestoso growl per sonorità più leggere. Questo cambiamento portò nel 2011 alla pubblicazione di Heritage, che è stato sicuramente un buon album in stile prog rock anni 70, ma che ha fatto storcere il naso a molti fan. Questo nuovo prodotto farà ancora più parlare, discutere e dibattere di sé. Volenti o nolenti, gli Opeth che ci avevano fatto emozionare dagli esordi fino a Watershed non ci sono più.
L’artwork è stato affidato come di consueto alle esperti mani di Travis Smith. La copertina è davvero molto suggestiva e rappresenta tre icone: in quella a sinistra viene rappresentato Axel Oxenstierna, politico svedese del XVII secolo accompagnato da un aforisma in latino: An nesci, mi fili, quantilla prudentia mundus regatur? (Non sai, figlio mio, con quanta poca saggezza è governato il mondo?); in quella centrale Terenzio, con la celebre frase: Hoc tempore obsequium amicos, veritas odium parit (in questi giorni l’adulazione vince gli amici, la verità genera odio); ed infine, a destra, un altro scrittore latino, Marziale: Ille dolet vere qui sine teste dolet (È addolorato davvero chi piange senza testimoni).
L’album apre con “Eternal Rains Will Come”: l’intro ha una ritmica molto complicata accompagnata da chitarre ed organi distorti. Dopo una pausa sulfurea inizia una parte jazz fusion con la voce di Akerfeldt in risalto che culmina in un prog rock dai forti connotati “opethiani”. La tracklist procede con il singolo “Cusp Of Eternity” brano discretamente pesante nel quale fanno capolino alcune sonorità che ricordano un po’ Watershed. Grandi protagonisti di tutto il disco sono l’organo hammond, le tastiere ed il mellotron, che però rilegano spesso in secondo piano le chitarre di Akesson ed Akerfeldt.
Una piacevole sorpresa è data dal rientro dell’ex batterista Martin Lopez in due brani: il primo è “Goblin”, brano dalle forti tinte fusion, episodio innovativo per la band nonché autentica sorpresa e palese tributo ad una grande band italiana, i Goblin. Il secondo è la orientaleggiante “Voice Of Treason”, il miglior brano presente nell’intero lavoro. In queste due canzoni la trama si infittisce e le atmosfere musicali si fanno più intricate e composite. Il resto del lavoro scivola via un po’ anonimamente tra alti e bassi, tanto che, e questa è una vera novità per un disco degli Opeth, in alcuni momenti viene addirittura voglia di saltare qualche traccia.
Sicuramente questo Pale Communion è un album molto controverso, che in una scala di preferenza personale si posiziona pure un gradino sotto il precedente lavoro. Bisogna riconoscere l’incrollabile coerenza del leader della band, che però aveva promesso che sarebbe stato un album più duro del precedente, per quanto di nuovo privo di parti death metal. Peccato che di duro abbia ben poco. Chiaramente non ci aspettavamo growl, blast beats o chitarre pesantemente distorte, ma forse qualche episodio simile a “Hex Omega” per citare un brano riuscito tra gli ultimi ascoltati. Così facendo si perdono i fan che si sono conquistati nel corso degli anni senza guadagnarne di nuovi, perché è difficile eguagliare dei capolavori prog rock del passato. Chissà cosa ci riserberà il prossimo album. Un ritorno alle origini? O il proseguimento di questo sentiero prog rock? Non ci resta che aspettare, ancora una volta.
6.0