Volenti o nolenti gli Opeth sono stati una delle formazioni più influenti degli ultimi vent’anni, in ambito estremo e non, e nonostante qualcuno sia rimasto deluso dagli ultimi due dischi degli svedesi non si può certo negare l’interesse generale ogni qual volta questi musicisti pubblichino qualcosa. Per testare l’effettivo stato di forma della band, non c’è niente di meglio di assistere ad una bella performance in terra nostra: l’ultima volta che vennero in Italia Akerfeldt e soci non raccolsero il 100% di consensi, soprattutto per l’assenza di distorsione e growlings, cosa però plausibilmente intuibile considerando che i nostri se ne erano appena usciti con Heritage, ma adesso? Con alle spalle una freschissima release a nome Pale Communion, caratterizzata da un’atavica nostalgia di prog e seventies, cosa ci si sarebbe potuto aspettare? La curiosità che ci ha spinto a intraprendere il viaggio per l’Alcatraz di Milano era tanta, se aggiungiamo la presenza come special guest di una formazione di tutto rispetto come gli Alcest, gli ingredienti per una serata imperdibile c’erano tutti.
ALCEST
Come se non bastasse la pioggia a darci il benvenuto a Milano, nonostante la nostra puntualità il concerto è partito con ben venti minuti d’anticipo, e per fortuna ci siamo persi giusto il primo brano presentato dalla band, “Opale”. Vuoi un po’ per l’orario, vuoi un po’ per il fatto che molti dei presenti sarebbero venuti esclusivamente per gli svedesi, fatto sta che l’Alcatraz è rimasto “quasi vuoto”, riscaldato solo da quasi la metà dei presenti che si sono fatti comunque sentire con tutto l’apprezzamento possibile per la band di Neige. La setlist degli Alcest ha pescato a piene mani nel loro repertorio, permettendo ai presenti di gustarsi sia brani dal sapore marcatamente shoegaze sia altri più improntati sul post-black tipico della band francese. L’empatia sprigionata dai pezzi suonati ha strappato tutti i consensi possibili, grazie anche all’impianto luci che ha fatto il suo dovere, avvolgendo tutti noi in un’atmosfera triste e suggestiva, tinta di un blu celeste malinconico. Precisi e visivamente coinvolti, gli Alcest hanno emozionato come non mai al momento di “Autre Temps”, piccola gemma tratta da un disco enorme come Les Voyages De L’Ame, con quel coro capace di sciogliere l’animo anche del blackster più incallito (come se i suddetti musicisti non provenissero dalla scena delle Légions Noires). In sede live i pezzi del loro ultimo album risultano molto più godibili, in virtù del basso e della batteria molto più udibili e “pestanti”, capaci così di donare maggiore ritmicità e spessore a brani contestati da una parte ed apprezzati dall’altra (personalmente ho rivalutato il loro Shelter grazie alla performance su “L’eveil Des Muses”). Poi si giunge a “Délivrance” e Neige annuncia che sarà l’ultimo brano della serata… Sei pezzi scarsi lasciano attonito il pubblico e persino noi altri, ma pazienza, ci godiamo l’ultima traccia di Shelter e ci prepariamo a goderci il piatto forte.
OPETH
Ci rendiamo conto che il locale si è rimpinzato di gente appena i francesi hanno finito di suonare; tempo mezz’ora per il cambio palco e già è ora di Opeth. Parte l’intro sulle note di “Through Pain To Heaven” (nota agli appassionati di horror come parte della soundtrack di Nosferatu), ottima per far “entrare” il pubblico in quello che sarà il primo brano della serata, ovvero “Eternal Rain Will Come”. Il palco è un tributo all’ultima fatica di Akerfeldt e soci, con i tre quadri rappresentati in copertina appesi dietro la band stessa, ovvio orgoglio di musicisti convinti e consci di aver realizzato un disco con gli attributi. La resa dei brani estratti dagli ultimi due dischi, va ammesso, dal vivo è eccezionale, si può godere di un calore aggiunto nell’equilibrio sonoro dei pezzi ed un impatto che su disco non può chiaramente essere reso. La risposta del pubblico è calorosa (e va ammesso che per tutta la durata del concerto, ovvero due ore filate, il pubblico non ha mai mancato di elogiare gli svedesi con scrosci di applausi ed apprezzamenti vari) e devo ammettere che tutto sommato me l’aspettavo, dopotutto di fans rimasti ostinatamente ancorati ai vecchi lavori degli Opeth ormai ne sono rimasti pochi e ora l’ascoltatore medio della band svedese è una sorta di indefinibile intellettuale molto open-minded nella scena metal odierna: era dunque facile immaginarsi la gente apprezzare tanto gli ultimi brani (in ordine cronologico) quanto gli episodi più datati. Ebbene sì, avete letto bene, gli Opeth si sono esibiti in quello che definire concerto è limitativo, magari evento sarebbe il termine più appropriato: la scaletta aveva il sapore della commemorazione di una carriera ventennale da fare invidia a molti musicisti presenti sul globo. Il secondo brano in scaletta è “Cups Of Eternity”, che dal vivo fa venire la pelle d’oca con quella base ritmica che ti investe e non ti lascia più per tutto l’ascolto del brano. Mikael ha scherzato col pubblico tutto il tempo possibile tra un brano e l’altro e nonostante le sue fossero battute piuttosto scontate e autoironiche (come ad esempio prese in giro del proprio abbigliamento e della propria forma fisica), ha regalato grasse risate sentirle pronunciare da un uomo che possiede un timbro vocale piuttosto basso quando non canta immerso nei seventies. In particolare, presentando alcuni brani d’annata, tra cui anche alcuni da My Arms, Your Hearse, ha confessato che in Italia hanno sempre riscontrato il massimo apprezzamento per la loro musica, anche all’inizio quando non se li cagava nessuno (parole sue).
A proposito di questi brani, bisogna dire che sentire Mikael cantare in growl dopo gli ultimi due dischi ha il piacevole sapore dell’emozione, e sentire una riuscita alternanza tra brani vecchi e nuovi ci ha fatto rendere conto (ancora di più, almeno) di quanto gli Opeth siano una Band con la “B” maiuscola, che si può permettere di scrivere capolavori di un intero genere per poi virare su lidi completamente diversi sapendo di poter realizzare sempre nuovi capolavori. “Bleak” ha scatenato l’emozione e l’agitazione ininterrotta dei presenti, che hanno finalmente realizzato il concetto di concerto commemorativo, e il sottoscritto ha apprezzato a pieni voti l’operato di Martin Axenrot, che sui brani scritti da Lopez ha dimostrato una caratura tecnica ed un feeling invidiabile. Si passa poi a Still Life, con “The Moor”, e anche lì emozione a non finire, anche grazie ad un poderoso growling che non ha deluso per niente. Dopo l’esecuzione di “Elysian Woes” la tentazione di prendersi una pausa sarebbe stata forte, ma in una scaletta composta da soli capolavori non c’è tempo di rifiatare, ed avremmo rischiato di perderci “Windowpane”, bellissima, emozionante e spettacolare. Non ha deluso neanche l’esecuzione di “The Devil’s Orchard” (forse il brano più bello di Heritage), così come l’improvvisazione acustica di Akerfeldt durante i problemi tecnici di Axenrot, definiti da Mikael -farting- (a voi la traduzione), improvvisando col pubblico in veste di cantante brevi arrangiamenti di “Harvest” e “Face of Melinda”. La conclusione della serata è affidata a tre brani enormi quali “The Lotus Eater”, una “The Grand Conjuration” da lacrimoni ed infine, in veste di encore, una bellissima ed emotivamente straziante “Deliverance”; dopotutto come finire un concerto immenso se non con quella sincopatia finale?
Dopo avervi tediato con un track by track (mi ero ripromesso di non farlo, ma è stato impossibile) come posso concludere? Potrei dirvi di non aver sentito il minimo commento negativo sulla serata da parte dei presenti, solo commenti entusiasti sia da parte di chi li vedeva per la prima volta sia da parte di chi chi si può considerare un veterano ai loro concerti. Potrei dire che un concerto simile andrebbe ricordato negli annali dei concerti in Italia. Oppure potrei semplicemente ringraziare due band superlative che con le loro performance ci hanno regalato una serata memorabile.