(Mordgrimm/Throatruiner Records, 2013)
1. Scorn
2. Rags
3. I Can’t Forget
4. Antietam
5. Black Smoke
6. Stretched Thin
7. Astral Sleep
Far partire questo disco è come mettere un dito nella presa della corrente, come lanciare un razzo in casa o pisciare sulla macchina dei carabinieri: è pericoloso. Sin dall’inizio dà la sensazione di essere avvolti dal buio più nero, quello impenetrabile dei terrori notturni, quello che cerca di soffocarti quando meno te lo aspetti. E fin qui, da parte di tutti noi zozzoni, direi meravigliosamente impeccabile.
I Primitive Man ci offrono un album di debutto in avanzato stadio di decomposizione, senza esitazioni o titubanze, mostrando di essere un gruppo solido con delle (sporchissime) idee precise su ciò che hanno deciso di fare. Scorn esce in co-release tra la Mordgrimm e la Throatruiner Records, dando di sé l’impressione di essere un fardello troppo pesante per poter esser portato da soli. Sette tracce per quaranta minuti, che inizialmente sembrano non passare mai; forse a causa di una tracklist apparentemente casuale, che si riprende e torna a scorrere solo nella seconda metà del lavoro.
La prima canzone, che è anche la titletrack, si dilunga per quasi dodici minuti. Da subito si può notare la grande cura con cui questo lavoro è stato prodotto: dei suoni a dir poco enormi, scuri, vibranti e dall’impatto catastrofico. Oltre ad evidenti ondate di sludge doom si percepisce qualche riferimento crust nelle sezioni più animate del brano, un picnic a base di fango tra i The Body e i Doom. “Rags” mette ulteriormente alla prova le chitarre con delle aperture dinamiche e spettrali, in qualche riff si scorge una vago approccio death doom e lo spropositato accumulo di fischi ricorda molto una versione iper-prodotta degli Eyehategod. Il disco si prende alcune ‘pause’ paranoiche a cavallo tra drone e noise con “I Can’t Forget” e “Black Smoke”, e ricade in tentazione con “Stretched Thin” la traccia più tirata del disco, dove il d-beat trasporta tutte le intenzioni crust e grind, probabilmente derivate dai precedenti gruppi del cantante chitarrista Ethan McCarthy. Quelle che però potrebbero essere le tracce più memorabili sono quasi sicuramente “Antietam” e la conclusiva “Astral Sleep”, che affrontano in modo diverso il doom più viscerale e lo sludge più sporco, in un intreccio che senza troppe pretese riesce a convincere per la sua immediatezza.
Non è facile criticare un album così ben messo, con un’ottima convivenza di generi e con dei suoni micidiali. Bisogna però tener presente che il disco in questione non eccelle mai, ha un songwriting relativamente povero e, conseguentemente, una longevità bassissima. Il trio statunitense di certo stupisce, ma a volte non basta salire e scendere di mezzo tono per dimostrare di essere estremi. I Thou e i Khanate sarebbero contenti se potessero avere dei nuovi compagni di giochi, per il momento aspetterei che diventassero un attimino più grandi prima di lasciarli uscire da soli in cortile.
6.5