Il dodicesimo album dei Testament si apre…con un intro! Nulla di originale, ma quantomeno ben realizzato. E così comincia l’avventura di questo “The Formation of Damnation”. Il quintetto californiano non ha bisogno di presentazioni, essendo stato uno fra i gruppi di maggior importanza nell’ondata della Bay Area ottantiana. Una cosa, però, va detta: il ritorno alla formazione originale (fatta esclusione per il batterista Louie Clemente, sostituito dall’ottimo Paul Bostaph, ex-Slayer e più volte accorso in salvezza dei Testament stessi) ha giovato non poco. L’album suona old-school, ottimo per i fan che, ormai, non ci speravano più, rassegnati a vedersi arenare i nostri sulle spiagge della tranquilla piattezza musicale e stilistica o, peggio ancora, a seguire la strada dei Metallica post-“Black Album”. Perché, in fondo, chi si sarebbe aspettato dopo nove lunghi anni di attesa, un risultato sopra la media generale del “già sentito”? Eppure, il lavoro è nel contempo originale e variegato, alternando influenze che vanno dall’heavy metal di Maideniana memoria a qualche eco di progressive (seppur proposto sempre in chiave veloce, come nel caso della title track, o di “Dangers of the Faithless”, che ricorda abbondantemente i Dream Theater di “Train of Thought”) e di metal moderno, per esempio nella voce dell’ormai storico Chuck Billy, sempre a metà fra il growling e i toni nettamente più puliti.
Di tanto in tanto ricorrono gli echi proprio dei colleghi Metallica, specialmente nella prima metà del disco, quando vengono “citati” abbastanza evidentemente alcuni fra i pezzi meno famosi proprio del “Black Album” sopra ricordato. E a questo punto sorge una riflessione: come è possibile che gli stessi Metallica, seppure mantengano da anni una formazione che è per ¾ originale, non riescano a produrre un album minimamente convincente, bloccandosi su passaggi e canzoni banali, oppure talmente complesse da risultare inascoltabili, oppure semplicemente brutte (chi ricorda il famigerato suono del rullante in “St.Anger” alzi la mano), mentre invece i Testament riescono agilmente a riprendersi immettendo sul mercato una decina di canzoni che, da sole, farebbero impallidire per la vergogna l’intero repertorio post-“Black Album”, fatta eccezione per pochi pezzi?
In definitiva un album decisamente coinvolgente ed accessibile anche per chi non conosce gli album storici dei Testament, che lascia spazio ai vecchi fan, appagati dai numerosi assoli presenti e da un ritorno in grande stile, e che cerca di accaparrarsene di nuovi per le future generazioni. E, sentendo come suonano, non dovrebbe risultare difficile.
Un mezzo voto in più per la bellezza dell’artwork…
…ed un mezzo voto in meno per il songrwiting talvolta un po’ troppo gratuitamente violento. Anche se, in fondo, anche questo fa parte del gioco.
Voto: 8