(Denovali Records, 2012)
1. BYD;
2. EAC;
3. DDE;
4. ULC;
5. OND;
6. YSJ;
7. TEQ;
8. MUO;
9. WJU;
10. GGI
La tedesca Denovali Records, diciamocelo, è sempre stata assai attenta a ciò che le succede intorno e ha spesso saputo approfittare del trend del momento buttando sul mercato un’enorme mole di uscite, spesso e volentieri fra le più disparate (nel suo catalogo compaiono Celeste, The Eye Of Time, AUN, Kodiak, Saffronkeira e Aussitot Mort, per dire quanti generi l’etichetta tenti di abbracciare). Le ultime uscite non sono da meno, vanno in cerca di quegli ascoltatori che possono apprezzare sia le cose più raffinate e, se vogliamo, d’elite sia quelle più fruibili e dirette come Lento o Blueneck: il progetto The Alvaret Ensemble rientra nella prima categoria.
Questa collaborazione, totalmente basata sulle doti di improvvisazione dei componenti, vede fra le proprie fila Greg Haines al piano, Jan e Romke Kleefstra (il primo dietro al microfono, mentre il secondo si occupa di chitarre ed effettistica varia), e Sytze Pruiksma alle percussioni; il risultato di questa esperienza è stato interamente registrato alla Grunewaldkirche di Berlino, con anche la partecipazione di Iden Reinhart e Hilary Jeffery. Quello che ne risulta è quasi un’ora e mezza di raffinatissime e minimali melodie di piano che trovano la propria dimensione ideale al cospetto delle malinconiche partiture di violino di Reinhart e delle linee di trombone di Hilary Jeffery, che porta con sé l’eredità e i suoni che tanto abbiamo apprezzato in progetti come Kilimanjaro Darkjazz Ensemble e The Mount Fuji Doomjazz Corporation. Pur se lo spettro di questi due gruppi compare qua e là, The Alvaret Ensemble mostra una personalità differente, più desolata e autunnale, vicina ad alcuni passaggi di Birds Of Passage o a “Stone Angels” degli Ulver. Nonostante sia frutto di un’improvvisazione, tutto è meticolosamente calibrato e dosato: ogni strumento (voce compresa, ovviamente) si ritaglia un proprio piccolo spazio nel fluire dei brani, dando vita ad atmosfere che solo un paesaggio innevato e solitario può ricordare. Paradossalmente sono i brani più lunghi quelli a colpire di più: il finale di “WJU” risulta tanto inaspettato quanto annichilente, mentre il trombone in “ULC” dà il meglio di sé all’interno di questa uscita.
Ci vorrebbero decine di ascolti per penetrare a fondo in un’operazione come questa, ed è quello che consigliamo di fare a chi apprezza il tipo di sonorità qui descritte. Non bisogna lasciarsi ingannare dall’iniziale freddezza con cui le canzoni si accostano a chi le ascolta: lentamente il disco si lascia esplorare in ogni sua forma, e le partiture di piano non sembrano più solo belle note a caso, ma riescono a costruire un percorso che, se intrapreso, non può che lasciare soddisfatti, nonostante l’ambizione che c’è dietro ad esso.
7.0