(Autoproduzione, 2012)
1. Ophiuchus
2. Auriga
3. Cepheus
4. Lyra
5. Andromeda
6. Cygnus
7. Hydra
8. Gemini
9. Eridanus
I The End Of Six Thousand Years sono uno di quei gruppi di cui in Italia dovremmo andar fieri, e questa è una cosa che forse non sarà così chiara a chi non li ha mai sentiti nominare e si approccia per la prima volta a loro ascoltando questo nuovo Perpetuum. In un periodo in cui la parola “post” è diventata un prefisso che un gruppo usa per sentirsi più “figo”, potrebbe sfuggire la sottile differenza tra chi segue una specie di trend (per quanto di nicchia) e tra chi invece propone musica ispirata e soprattutto lo fa da tempi non sospetti; in sostanza, parliamo della differenza tra leaders e followers di un movimento artistico. I TEOSTY, un tempo noti come band a metà tra il metalcore più intelligente e, volendo, il death melodico, propongono un ispiratissimo post-core “evoluto” anche da prima del 2008, anno del loro magnifico debutto sulla lunga distanza Isolation.
Parliamo di una band meticolosa, che non sforna più dischi che può per farsi ricordare facilmente dalla gente, perché semplicemente non ne ha bisogno: dopo un disco longevo come il precedente, i The End Of Six Thousand Years potevano permettersi di metterci anche quattro anni per sfornare un nuovo album, trovando comunque schiere di fans pronti ad accogliere un altro grande lavoro. Perché tale è Perpetuum, un’opera che conferma le grandi qualità del gruppo nostrano e che mette a tacere la maggior parte delle bands che in Italia provano a creare qualcosa di “post” hardcore/metal/black metal senza capire che non bisogna scimmiottare i Neurosis o gli Altar Of Plagues, ma creare qualcosa di davvero originale e godibile per essere ricordati nel tempo.
La commistione di generi e influenze è uno dei grandi punti di forza di Perpetuum. Rispetto a Isolation, le trame sono più distese e articolate, meno immediate, e il mood generale è molto più oscuro: con questo ci riferiamo solo all’atmosfera generale del disco, anche se qualche accenno un po’ più esplicito al black/hardcore tanto in voga adesso (ma chiaramente i TEOSTY con un fugace passaggio in questi territori spazzano via più della metà delle bands che si cimentano unicamente con queste sonorità) si possono sentire più che altro in un pezzo dalla grande immediatezza come “Auriga”. Per il resto, in tutto l’arco del disco si sentono riferimenti ai gruppi più diversi, nascosti qua e là in modo che risultino evidenti solo ad un orecchio attento: alcuni più legati alla scena post classica (l’inizio di “Cygnus” può ricordare Salvation dei Cult Of Luna, ma lo stesso brano finisce con un assalto sonoro figlio di una Svezia di tutt’altro tipo), mentre altri richiamano maggiormente il passato della band (il brano seguente, “Hydra”, comincia con un riff che sposta il baricentro dall’avanguardistica Umea alla feroce Gothenburg degli At The Gates, scena musicale che comunque riappare anche in altri brani, nei momenti più inaspettati).
E’ ingiusto citare in maniera così esplicita altri gruppi, ce ne rendiamo conto, ma Perpetuum ha una qualità ambigua: più lo si ascolta, e più si fatica a descriverlo. E non ci riferiamo solo alle mere definizioni musicali, ad esempio se si possa parlare più di post hardcore o post metal: non ci interessano queste sterili disquisizioni. Ad ogni fruizione, il disco rivela passaggi che non si erano notati in precedenza. E se inizialmente si rimane colpiti maggiormente dalla prima parte del disco, dalla camaleontica “Cepheus” o dall’avvolgente “Andromeda”, col passare del tempo è il finale, a partire dalla succitata “Cygnus”, a restare impresso nella memoria: la penultima “Gemini” potrebbe seriamente essere il pezzo migliore mai scritto dal gruppo, manifesto di un modo di comporre brani articolati e allo stesso tempo immediati e che sappiano emozionare realmente, grazie ad un incedere a tratti epico che nasconde un umore di fondo fortemente introspettivo e carico di sentimenti contrastanti (con risultati al livello di un capolavoro recente del post metal come Spoils Of Failure).
Allo stesso tempo, questa qualità di cui abbiamo parlato lascia a volte interdetti. Nonostante la magnifica chiusura affidata ad “Eridanus”, brano che tradisce influenze spiccatamente post rock e affida gli attimi conclusivi alla malinconia, il disco sembra talvolta “sospeso”, in attesa di un punto di arrivo che in realtà non c’è mai: una corsa continua in un arcobaleno di colori tendenzialmente cupi (ma mai grigi e scontati, e sempre amalgamati in maniera sorprendente) che affida alle grandi emozioni sperimentabili lungo il percorso il reale messaggio del disco, senza che ci sia bisogno di un traguardo specifico. Che sia questo il significato di Perpetuum?
Si parlerà a lungo in Italia di questo disco. Molti si riempiranno la bocca di parole adulatorie pur non capendolo, altri lo idolatreranno perché “fa figo”, altri ancora ne resteranno rapiti e, saremmo pronti a scommetterci, andranno a riempire le schiere di quei followers dalla cui aura malvagia i The End Of Six Thousand Years saranno sempre immuni. La verità è che, se questo disco fosse uscito dalla Svezia, dall’Inghilterra o dall’America, sarebbero molte, ma molte di più le persone pronte ad esaltare le doti di questa band ispirata e originale, che ha composto un disco che, ne siamo certi, sarà solo il primo motivo d’orgoglio di un’annata che si preannuncia (o si sta già dimostrando) ricca di validi prodotti italiani per quanto riguarda la musica sperimentale (pensiamo a Sunpocrisy o Three Steps To The Ocean, e aspettiamo di sentire Murder Therapy, Lento e Ufommammut, solo per fare qualche esempio di quanto sarà ricca di bands nostrane la nostra Top Ten di fine anno…).
L’intero album è stato messo a disposizione di chiunque dalla band stessa sulla propria pagina bandcamp: non avete scuse, smettete di guardare al di là delle Alpi perché le meraviglie sono tutte a casa nostra, e i The End Of Six Thousand Years sono i potenziali leaders di un movimento che reclama spazio nel mondo.
8.5