Dici “The Haunted” e pensi Svezia. Lo ripeti, e ti vengono in mente tutta una serie di stereotipi. Ad esempio il ghiaccio, la barba lunga, i corpi massicci che, più che una chitarra, sembrano imbracciare una scure bipenne, intenti a sacrificare il primo agnello (sacrificale, perlappunto) che si trova a passare di lì.
Ma se sei un appassionato, e hai già sentito parlare di loro, ti rendi conto che tutte queste categorizzazioni, prima ancora che sbagliate, sono inutili. Con il loro sesto album, infatti, i The Haunted non spostano più di tanto il loro target di influenze, ritornando alle origini. Una volta archiviata la pratica “The Dead Eye”, definito dalla critica come una virata su territori più sperimentali, si ritorna sempre a quell’incrocio fra death e thrash metal, capace di regalare grandi momenti di nazionalismo fatto in musica (“Moronic Colossus”, “Faultline”), ma allo stesso tempo in grado di sorprenderti e portarti sulle calde note temprate dal sole del southern rock americano (“Rivers Run”). Come si suol definire più o meno tutto in questi tempi: post.
Un disco che, nei suoi trentanove minuti di durata per undici tracce, non nasconde sorprese rilevanti, e forse è proprio qui il suo punto di forza. E questo perché i The Haunted sono ben consapevoli della loro natura. Probabilmente non saprebbero mai arrivare agli eccessi di originalità di una superband qualsiasi attualmente in circolazione, e tuttavia non è ciò che interessa ai The Haunted stessi. Prima di tutto perché il genere proposto non lo richiede, attestandosi su un modesto, ma non per questo meno redditizio, contesto di sonorità in cui le innovazioni sono generalmente poche, ma la possibilità di comporre brani è molto variegata. Ed in secondo luogo perché quando con il minimo sforzo d’inventiva -controbilanciato però da tonnellate di anni d’esperienza (At the Gates mica per niente!)- riesci ad ottenere il successo sperato, chi te lo fa fare di rinnovarti ed andarti a cercare nuove fette di mercato?
E allora qui ripensi ai tuoi immaginari iniziali, e li aggiorni allo spaccato svedese contemporaneo, dove l’unica cosa che si mantiene è il freddo, ma che nasconde in sé una grande efficienza ed un buon impatto. Anche in musica, anche nel metal. “You can’t always get what you want”, dicevano i Rolling Stones. Beh, in questo caso ciò che finisci per ottenere, è proprio ciò che stai aspettando.
Voto: 8