Premessa: chi vi scrive ha ignorato i Mars Volta all’incirca fino all’anno 2008, considerando le loro composizioni come spesso vaghe, ridondanti e, in definitiva, niente di così stupefacente come i principali critici musicali volevano far credere. Poi, d’improvviso, il risveglio, e anche io mi sono ricreduto.
”Ochtaedron”, quinto album in studio della band texana, comincia esattamente dove gli stessi Mars Volta avevano deposto le armi. E, come di consueto, comincia un nuovo viaggio onirico, pieno di ritmi che vanno dal progressive agli influssi di elettronica, passando per ritmi tribali ricreati tanto dall’uso delle percussioni quanto dalle linee di basso. E, nonostante la brevissima distanza fra un album e l’altro, c’è da dire che, impeccabilmente, la qualità della ricerca sonora intrapresa dalla band rimane costantemente alta. L’album, alla stregua dei suoi predecessori, è notevolmente complesso, e va sicuramente riascoltato più e più volte per potere assimilare e ricordare i passaggi principali delle diverse tracce. Complice anche la durata delle canzoni (tuttavia piuttosto ridotta rispetto al passato), e il frequente utilizzo di momenti “riempitivi” (intesi come zone di passaggio fra i principali riff dei brani), l’album si sviluppa e non lascia quasi nulla di intentato nel corso della sua durata.
I toni sono forse più pacati rispetto agli album precedenti, e l’utilizzo massiccio (ma sapiente) di sintetizzatori e suoni dilatati contribuiscono a donare al tutto un tocco di anacronismo, che tuttavia non sfigura certo. Paladini di un suono fuori dagli schemi attuali, certamente non limitabili a livello discografico, e quasi sicuramente senza alcun emulo degno di nota, i Mars Volta si ritrovano soli a guidare (talvolta, quasi in maniera troppo schizofrenica) un percorso di ricerca musicale probabilmente ancora tutto da scoprire, e che consente ampia libertà di movimento e grandi modalità di variazione. Assimilabili, per certi versi, a versioni soft di gruppi quali Tool ed Isis (ai quali, di certo, non hanno nulla da invidiare in fatto di tecnica strumentale, un fattore chiave in questo genere), il gruppo confeziona nel giro di 50 minuti o poco più l’ennesimo lavoro discografico di ottima qualità.
Un disco che, nonostante il già citato smorzamento dei toni, contribuisce con le sue atmosfere avvolgenti e pacate (“With Twilight as my Guide”) a dare un’immagine riflessiva e, nonostante ciò, sempre pronta ad esplodere in sfuriate musicali (“Cotopaxi”). Sfuriate che, peraltro, nonostante abbiano poco a che fare con l’ex-band dei componenti principali Omar Rodriguez-Lopez e Cedric Bixer –Zavala (ossia gli At the Drive-In) fanno capire all’ascoltatore chi stia dietro agli strumenti.
In definitiva, quindi, un album che continua sulla linea di quanto composto fino ad ora e che contribuisce sicuramente a rafforzare il bacino di fan. A maggior ragione, se visti dal vivo, in concerto.
Voto: 8