È piuttosto curioso come le etichette appioppate pregiudizialmente finiscano per rovinare in partenza quello che, invece, potrebbe essere un giudizio imparziale. Dici Throwdown e pensi hardcore/metalcore. E basta. Non ti viene in mente che, forse, magari, ci possano essere alcune band che non si accontentano, e che si muovono all’interno del grande calderone malefico che è il metal. Non ci si pensa, in fondo, per pigrizia. Perché è molto più semplice dire che l’ennesimo disco dell’ennesima band è l’ennesima copia. Così, a prescindere. Tanto per non scomodarsi a fare l’unica cosa che andrebbe fatta. Cioè ascoltare.
I Throwdown non sono (più) una band metalcore. E per favore, signore e signori, smettiamola con questa lagna. Giunti al loro sesto album –e con più cambi di formazione dell’Inter F.C. della decade passata– i nostri occupano un posto fisso da ormai qualche anno nell’ambito del cosiddetto groove metal. Genere che fu, fra gli altri, dei Pantera e che vede oggi degne leve continuare la tradizone. E, infatti, come per i precedenti, le influenze southern si sentono tutte. Un cantato aspro, alternato a melodici che fanno tanto, tanto, tanto ricordare l’Anselmo di un tempo (come in “The Continuum”, o “The Blinding Light”), e cascate di ritmi lenti, spezzati che più non si può. Un disco, insomma, che si prende i suoi tempi, senza fretta e con la dovuta pesantezza ritmica. Ma anche, tanto per essere chiari, con i suoi assoli (“Serpent Noose”), parte essenziale e richiesta ad ogni band del campo che si rispetti.
Alla metà del disco, come se non bastasse, i tempi vengono ulteriormente smorzati. La “ballata” “Widowed”, infatti, si fa strada, come a voler dividere in due parti il platter. Echi di Metallica (periodo “Black Album”) si possono sentire, ma il chiodo fisso rimane sempre in Texas. Non troverete, tuttavia, nessuna accelerata a la “Fucking Hostile”. Si parla, piuttosto, della sezione più marcia, stantia e, per certi versi, “metallicamente psichedelica” dei Pantera. Così come non troverete, come detto, nessun accenno al metalcore odierno (e per frtuna!). Curiosamente, anzi, piuttosto che parlare di Killswitch Engage si potrebbe ben pensare ad un paragone con i Seemless degli esordi, ottimo progetto sui generis creato dal fuggiasco Jesse Leach.
In definitiva, i Throwdown con questo album continuano il loro progressivo distacco dall’hardcore (ormai definitivo e sensibilmente completato) per avvicinarsi ad altri lidi. Sicuramente meno popolari e/o sotto le luci dei riflettori, ma non per questo meno validi.
Voto: 7