01. Animal Mother
02. Discipline
03. Sick Of your Mouth
04. Imperfection
05. Law Of The Universe
06. Outlaw (Acoustic)
07. GodCrutch
08. Divine Reward
09. Masada
10. Heathen
11. Mystic
12. The Last Strand
13. Outlaw
14. Bloodwood
La paranoia è tornata, miei cari. E con lei la visione privata dell’Inferno di Steve Austin, il nefasto profeta di Nashville. Cazzo credevate? Che il noioso e redneck Tennessee sfornasse e allevasse solo manzi alla Elvis? Ebbene vi siete sbagliati. E di grosso. Come un sanguinolento scarto di carne Austin è tornato a sgocciolare su noi tutti con un nuovo disco, che manco a farlo apposta si chiama Animal Mother.
Ora, non so se questa sia una sottile citazione cinematografica o il titolo abbia un suo particolare significato nella mente diabolica del Nostro, ma visto che a tutti – ma proprio tutti – piace sempre e solo citare il Sgt. Hartman (molto di moda in versione doppiata nell’era youtube), ricordo ai paraculi citazionisti che Full Metal Jacket ha anche un secondo tempo, e che nella versione in lingua originale (ma chi l’ha vista quella?) del mirabolante incubo Kubrickiano a fianco di Joker & co. appare anche un soldato chiamato Animal Mother. Ve lo ricordate, no? Cosa c’entri non lo so, anche se in alcuni punti il disco ricorda la sferragliante M60 del truce e impavido mitragliere, ma c’è un ‘ma’: se nel film quel terribile strumento di morte faceva buchi grossi così, questo disco sembra un po’ sparare a cazzo di cane, se non proprio a salve. Non raccontiamoci fregnacce, ragazzi: l’archibugio di Steve, che risponde da più di vent’anni al minaccioso nome di Today Is The Day, sembra essersi giocato da tempo le sue pallottole migliori.
La prima traccia – che da il titolo al disco – ingrana con un doppio pedale scoppiettante e le voci luciferine a cui siam stati largamente abituati, ma se le chitarre sono i soliti rasoi impazziti e ultradistorti del vangelo secondo Austin, gli stacchi melodici (oddio, si fa per dire) di metà pezzo e finale ci trasportano in una dimensione insolita per il combo, direi quasi venata di nostalgia. Già a partire dal secondo pezzo le inclinazioni della band ritornano sul sentiero antico, con le cantilene acide della chitarra, l’efficace overdub di voce e una doppia cassa talmente strabordante sulla chiusura da scassare i marroni. Qualche gradino sopra “Sick Of Your Mouth”, sulla scia dei migliori brani di Willpower ma con un gusto vagamente pop in quel che potrebbe essere considerata la prima forma rudimentale di ritornello/refrain mai apparsa in un’opera dei Today Is The Day. Stranezze simil-black-metal e dissonanze varie infestano la successiva “Imperfection”, che prestissimo si infanga in un midtempo robusto ma finisce quasi subito (e che cazzo!). Il testimone lo riprende al volo “Law Of The Universe”, brano che sembra aver risentito del fugace passaggio di Derek Roddy dietro alle pelli, ma pur randellando il giusto i suoni della batteria non rendono giustizia ai blast beats e al pezzo in generale. Insomma, fin qui sembra di aver fatto il giro sulle montagne russe (dell’orrore) dopo aver mangiato sei etti di carbonara. Poi arriva “Outlaw”, e con lei ulteriori svarioni: Steve Von Till meets Battisti? “Godcrutch” sciorina industrialismi alla Godflesh, “Divine Reward” ribadisce i concetti prima espressi in meno di un minuto, poi il disco si riassesta e arriva “Masada”, martello che assieme ai restanti pezzi va a completare il puzzle senza aggiungere nulla di nuovo. Chiude la straniante “Bloodwood”, un lullaby malato come te lo suonerebbe Dave Lombardo in accoppiata con dei Mr. Bungle febbricitanti.
Alla fine ci si sente appesantiti e un po’ turbati. Ascoltato tutto di fila il disco sortisce l’effetto di un brutto trip, ma forse non è una novità, e masochisticamente vi confesso che non è poi una così brutta esperienza, ma i pezzi, i pezzi… i pezzi sono i fantasmi dei coltelli di un tempo. Non tagliano, non sono abbastanza arrugginiti. Sono contundenti ma hanno la punta smussata. Sembrano i coltelli della Fisher-Price. Tutta merda, direte? Non lo so. In fondo in fondo Animal Mother è talmente diretto da non poter essere criticato appieno: è – come più o meno tutti i suoi predecessori – un album concepito, suonato e registrato in completa buona fede. Animal Mother è il nuovo ed ennesimo rigurgito di Steve Austin. Animal Motherè Steve Austin, un musicista sempre fedele a se stesso nel bene e nel male. E guai a chi osa giudicare una carriera pluridecennale come la sua, perché chiunque abbia avuto a che fare con la musica estrema, sia sul versante concettuale che su quello strettamente sonoro, s’è dovuto in qualche modo confrontare con questo moderno cantore del mal di vivere. Sembra dunque sacrosanto triturarsi le palle con le nuove canzoni del disco, da snocciolare come un rosario o da usare a mo’ di ceci per inginocchiarcisi sopra e recitare la parte che Austin porta in scena da un fottio di tempo. Ma se conservo i primi vinili editi dall’Amphetamine Reptile manco fossero reliquie in una teca, di certo non posso dire che ambisco a possedere le ultime uscite, inclusa questa. Forse dobbiamo rassegnarci al fatto che Steve ami crogiolarsi nel proprio brodo, citandosi pigramente ogni tot anni.
Un album strano, in definitiva. Non quanto Sadness Will Prevail ma abbastanza, a partire dai suoni, frutto del ritorno alle sane registrazioni casalinghe (la batteria è talmente naturale da sembrare registrata davanti a voi in salotto) dopo la parentesi Ballou di Pain Is A Warning, per arrivare ai cambi di tempo e d’umore repentini ma fondamentalmente inefficaci. Ok, capito: ci troviamo di fronte all’ennesimo ritocco apportato all’autoritratto della coerenza, ancora incompleto, quadro che forse Steve non finirà mai. Per cui fanculo a detrattori, schizzinosi, benpensanti, etc. Fanculo a tutti e bella lì, Steve, ti sei riguadagnato il tuo posticino tra il ‘lo fi’ e il (ci) sei.
6.0