Non sono originali. Non inventano nulla di nuovo. Eppure, ciò che fanno, lo fanno maledettamente bene.
I Torture Killer provengono dalla fredda Finlandia, e suonano death metal. Eppure, sin da ora potete tranquillamente fermare i vostri funambolici cicli di pensieri che vi portano ad accostarli automaticamente al death metal di stampo scandinavo. Una volta tanto, e con buona pace loro, gli At the Gates e compagnia bella non c’entrano proprio nulla. Quello che si respira, infatti, è un pu(t)r(id)o odore di scuola americana, forgiata e modellata in maniera chiara ed esplicita sullo stampo creato durante i primi anni ’90 in Florida e, più in generale, sulla costa est del Nuovo Mondo.
Andando a spulciare –nemmeno a fondo, a dire la verità– la biografia del gruppo si ricorda di come i musicisti in questione (partiti come cover band dei Six Feet Under) abbiano potuto godere della dolce compagnia del signor Chris Barnes in persona. Uno che, nella casella “Varie ed eventuali” potrebbe, appunto, scrivere Six Feet Under e Cannibal Corpse, tanto per cominciare a ragionare. Suona un po’ come se voi, che magari suonate cover dei Led Zeppelin con il vostro gruppetto da sala prove, e di tanto in tanto suonate in giro per le vostre sagre di paese, veniste contattati da Robert Plant in persona che vi chiede se può far parte del gruppo. Mica male, eh?
E poco importa se, dopo due album in studio, lo stesso divo che si è presentato bussando alla vostra porta se ne va (come è il caso di Barnes, appunto, che nel 2008 ha lasciato il gruppo poiché impegnato dagli altri suoi progetti, certamente più redditizi). Voi rimarrete per sempre influenzati dal suo passaggio, al punto tale da cercare (e trovare) un sostituto che canti in maniera molto simile alla sua. Il tutto, ovviamente, in maniera tale da potersi permettere, oggi, nell’anno domini 2009, di sfornare un disco come questo. Ossia una bomba di death metal vecchio stampo, granitico e perennemente distorto, che strizza un occhio a gruppi quali Obituary dei tempi d’oro e che, contemporaneamente, non ricade nei cliché tipici di quel metal che vedeva l’attitudine come prerequisito necessario ed obbligatorio. Anche a dispetto e svantaggio dell’eventuale accostabilità del lavoro. Mi riferisco alla scelta azzeccata, da parte dei Torture Killer, di produrre un disco con suoni che, seppur decisamente e fermamente uguali fra loro, almeno mantengono costante il grande pregio di essere registrati bene. Una scelta non comune a tutti, anche al giorno d’oggi.
Poi, sì, va considerato che il disco è composto da otto pezzi mai veramente riconoscibili se presi singolarmente. Ma si può anche pensare a questo difetto come ad una precisa volontà, ossia quella di creare un lavoro omogeneo ed onesto, capace di far sobbalzare l’attenzione dell’ascoltatore in alcuni punti “ad hoc” (particolarmente rilevanti sono, ad esempio, i dialoghi fra le chitarre) e di garantire una buona dose di divertimento. I testi, come al solito incomprensibili ai più, a meno di non possedere un dizionario italiano-grugnito/grugnito-italiano, sono quelli che sono. E dunque via con le ultra – abusate tematiche riguardanti tutte le forme possibili di violenza, morte e distruzione. In nome del gore più becero e provocatoriamente scanzonato.
A parte questo, insomma, nulla da eccepire. Un vivo applauso ad uno dei migliori rappresentanti (moderni, ma fino ad un certo punto) di death metal.
Voto: 7