(Prosthetic Records, 2014)
01. Salted Crypts
02. Habitland
03. Gift And Gift Unsteady
04. Lungrunners
05. Organic Infernal
06. Sanitations
07. Bad Nones
08. Former Lining Wide The Walls
09. Savage Climbers
10. Ransom Risen
11. Let Fall Each And Every Sedition Symptom
Questa recensione è leggibile in due versioni: una lunga e analitica e una condensata e lapidaria. Ai lettori pazienti e ai puntigliosi consiglio di cimentarsi nella lettura del testo integrale, se invece siete amanti dell’arte della sintesi, vi invito a saltare direttamente all’ultimo paragrafo e tante grazie per l’attenzione.
Brutti, sporchi e cattivi. No, non sto parlando del film di Nino Manfredi, sto parlando dei Trap Them, band grind/post hardcore formatasi a cavallo tra Louisville e Seattle, in occasione dell’uscita di Blissfucker, il loro quarto album in sette anni. Occhio però a non farvi fregare dall’accezione bonaria che comunemente si dà a questa triade di aggettivi: qui non si parla del look o dell’attitudine alla Motorhead, tanto per fare un esempio, viceversa di come questa sigla sia stata talmente inflazionata da aver ormai perso di significato.
Allora partiamo dal primo aggettivo, ‘brutti’. I Trap Them, con le loro magliette nere, i lividi e le cicatrici in volto auto provocati durante i concerti e i tatuaggi nel punto giusto rientrano a pieno titolo nei canoni estetici degli hardcore-kids contemporanei e, essendo in linea con la moda, per i più saranno tutt’altro che inguardabili. Ma qui dell’aspetto ci frega relativamente poco. La cosa che non convince di questo Blissfucker è la maggior parte dei brani. E non lo dico perché i pezzi in sé sono brutti (anzi, per un ascoltatore alle prime armi o un irriducibile fan saranno di sicuro manna dal cielo), ma perché alla luce di quanto inciso finora dal quartetto (e in generale dalla miriade di band che suonano le stesse cose dei Trap Them) sono un condensato di stralci già sentiti e soluzioni ripescate, tritate e re-impastate per tirar fuori un disco nuovo. Ecco allora la ricetta arcinota a tutti: una voce incazzata che abbaia alla luna e non conosce altre sfumature, la distorsione granulosa dei primi Entombed aggiornata alla versione 2.0 dell’anno corrente, un basso rantolante e imbastardito come non mai e la batteria che scende pesante come il granito e piace quando mena veloce su blast & co. ma annoia terribilmente sui mid-tempo. Il risultato? Sembra di sentire le parti più ‘moderate’ dei Converge, ovvero quei bridge che, se su un brano dei bostoniani coprono in media dai 5 ai 20 secondi e servono a mollare un po’ il tiro, qui sono i protagonisti indiscussi di intere canzoni. Cosa dire dei singoli brani? Il disco inizia con “Salted Crypts”, una hit che dopo un’intro tellurica passa con scioltezza da un d-beat ad una mitragliata di doppio pedale a sostenere accordi per quanto grossi decisamente selezionati all’ingrosso. La seconda traccia invece, e per fortuna, riporta ai fasti degli esordi e profuma pure di Terrorizer con le sue sfuriate blastbeat alternate a rallentamenti. Il primo vero imbarazzo arriva con “Gift And Gift Unsteady”, a metà tra un ‘anthem’ hardcore e un 4/4 alla AC/DC, canzone munita di una serie di riff che definire scontati e ruffiani è dire poco. Le cose non migliorano molto con la successiva “Lungrunners”: ok, c’è la ‘botta’, ma mancano freschezza e originalità. Al 2’36’’spunta addirittura fuori un assolino obsoleto in stile hc melodico che fa da ponte al riff reiterato dell’inizio. Un gradino più in alto “Organic Infernal” per l’atmosfera minacciosa e l’incedere serrato che in qualcosa ricordano i Breach di Venom. Si ridiscende nella noia con “Sanitations” e “Bad Nones” per respirare nuovamente aria pulita con “Former Lining Wide The Walls”, che si salva per la sua velocità e perlomeno tiene svegli. Gli ultimi tre brani – i più lunghi tra gli undici – strisciano come lumaconi sull’asfalto e sembrano non voler finire mai anche quando il disco è già agli sgoccioli (e meno male che “Let Fall Each And Every Sedition Symptom” chiude il tutto con un blastbeat in saturazione). Insomma, quarantacinque minuti di pesantezza in senso lato.
È qui che entra in gioco il secondo aggettivo: ‘sporchi’. Sì, i suoni dei Trap Them sono grassi, grossi, unti e slabbrati. Ma le parti suonate sono talmente impeccabili, i colpi così precisamente intensi, le dinamiche così livellate, i feedback e i larsen così ben calcolati, che i brani sembrano essere eseguiti da un gruppo di robot, e più che trasudare violenza e marciume sono spia del lavoro certosino eseguito dietro al banco del mixer in fase di produzione e missaggio, rivelandosi frutto di una scelta fatta a tavolino e verosimilmente imposta dal contesto di genere. Se il marciume dei Trap Them l’avevo fiutato e gustato sul primo disco, quello ‘presupposto’ di Blissfucker (ma anche dei due dischi intermedi andando a ritroso) è stato progressivamente insaponato e raschiato via con cura dalle abili mani di Kurt Ballou, che comme d’habitude (visto che è la quarta volta consecutiva che li registra e produce) ha confezionato un prodotto dall’aspetto cristallino, forse fin troppo. Ma d’altronde, secondo il modo di dire, ‘squadra che vince non si cambia’. Non v’è alcun dubbio che la generazione di fenomeni nata sulla scia dei Converge e arrivata oggi a gruppi come i Nails abbia davvero riformulato gli standard del metalcore e del post hc fino a lambire i confini di sludge/crust e powerviolence a partire da notevoli doti tecnico-artistiche, ma non sarebbe forse ora di piantarla di crogiolarsi nelle garanzie di un suono standardizzato e ritornare a qualcosa di più verace, coraggioso e soprattutto personale?
Ci rimane ‘cattivi’. Io i Trap Them li vedo non solo cattivi, anzi, cattivissimi. Tanto cattivi che non li si distingue dagli altri cattivi. Ma questo forse non è un difetto. Il quartetto è infatti celebre per i live infuocati tenuti in piedi dal frontman Ryan McKenney; dopotutto questa è musica che per essere capita e assimilata va ascoltata dal vivo e vissuta sulla pelle. Fate solo attenzione a non chiudere gli occhi mentre pigliate gomitate nel pogo, potreste scambiarli per qualcun altro.
Un disco per gli integralisti talebani del ‘suono-Ballou’, un disco pesante e violento, un disco per duri e puri che non ridono mai e che a tutti i costi vogliono/devono prendersi sul serio. O più semplicemente l’ennesimo cazzotto in faccia sferrato da un peso medio, questa volta così scolastico e prevedibile da essere facilmente evitabile. Ascoltate e giudicate voi.
6.0