I termini con cui, anche in Italia, verrebbe solitamente descritto un disco del genere non li ho mai apprezzati. Eppure, è innegabile che definire il nuovo lavoro discografico degli americani Walls of Jericho come “in your face”,”chugga-chugga” e via dicendo non sia del tutto sbagliato.
Giunti al loro quarto album, dopo il precedente eccellente di “With Devils Amongst Us All” e di un E.P., “Redemption” , in realtà non troppo riuscito, prodotto da Corey Taylor (Slipknot, Stone Sour), il gruppo di Detroit non si è fatto pregare. Spingendo ancora più a fondo sul pedale dell’acceleratore e “imbastardendo” ancora di più, se possibile, il proprio suono, i cinque producono un album che sin dalle prime note promette di non deludere le aspettative. Si sentono, e anche molto, le influenze dei vari gruppi con cui in questi mesi hanno condiviso il palco, primi fra tutti Hatebreed e Terror. Come prevedibile, dunque, il disco è ricco di breakdowns, continui cori di sottofondo che contribuiscono notevolmente a richiamare l’atmosfera (e, se vogliamo dirla tutta, anche i vari cliché) del genere e citazioni più o meno velate ai loro stessi precedenti discografici.
Sono frequenti i toni di quasi-marcia ( “I the Hunter” ), chiaramente riarrangiata in chiave hardcore. I testi sono generalmente basati su sentimenti cupi, di rabbia e rivalsa (la stessa “The American Dream” ne è la riprova), interpretati forse in una maniera superiore alle precedenti dalla caratteristica Candace Kucsulain, mai così mascolina (”Standing on Paper Stilts”) ed energica a livello vocale. Come già scritto, l’influenza dei mostri sacri del genere si fa sentire e l’esperienza maturata dal gruppo, unita alla stabilità (per usare un eufemismo) del genere, fa sì che il disco riveli, oltre ai suoi pregi, anche i suoi difetti e limiti.
Al solito, infatti, le canzoni si assomigliano, e per quanto tecnicamente ben suonate e prodotte rivelano svariati limiti d’inventiva. A questo va aggiunto che avvicinarsi all’ignoranza e alla ripetitività oltranzista di gruppi quali i già citati Hatebreed, per quanto questa tendenza a ripetersi possa farla da padrona, non può mai essere un buon segno. Se non altro per chi casomai, di tanto in tanto, sentisse la necessità di variare, pur mantenendosi nei territori di questo hardcore di nuova scuola americana (che, almeno un po’, appare in crisi).
Come di consueto, infine, non manca il pezzo melodico-acustico (”The Slaughter Begins” ), che funge da outro ad uno fra i più attesi album di questo 2008 che, tuttavia, risulta essere più una conferma delle ottime intenzioni, che non la consacrazione definitiva della band.
Voto: 7