Meno male che, di tanto in tanto, ci pensano gruppi come questi a contribuire alla causa del “Real Metal”, come lo chiamano lorsignori stessi (ai più acuti, l’ambiguità fra il “reale” in senso politico-monarchico, d’elite, e il più ovvio “reale” come opposto alla finzione). I Woe of Tyrants sono un giovane quintetto proveniente da Chillicothe, Ohio, che con questo “ Kingdom of Might” giunge al secondo album, coinciso con il debutto su quella che va ormai considerata una major a tutti gli effetti nel campo del metal moderno e non: Metal Blade (fra gli altri, As I Lay Dying, Cannibal Corpse, The Black Dahlia Murder, Vader e via dicendo).
Dediti ad una miscela fra death e thrash metal, entrambe di stampo più recente (involontariamente o meno che sia), potremmo piazzarli idealmente come un incontro fra i Lamb of God di “Ashes of the Wake” e gli All that Remains, coadiuvando il tutto con una tecnica degna di pochi e che, in più punti, per gli usi di suoni armonici, o per la velocità dell’esecuzione ricorda (udite udite) sue maestà i Dragonforce. Pur sempre di death si tratta, però. Dunque non aspettatevi un cantato pulito e melodico, bensì siate pronti ad accogliere linee growl che richiamano decisamente i già citati Black Dahlia Murder, e che eppure strizzano l’occhio di tanto in tanto alla scena nordeuropea. Assoli praticamente ad ogni brano, una buona dose di inventiva e una tecnica sopraffina garantiscono e prevengono ogni forma di caduta nel già strapieno dimenticatoio che affolla il mercato discografico odierno.
Il resto, è pressoché statistica: 11 brani, di cui un intro, per poco più di quaranta minuti di assalto sonoro ben registrato, ben bilanciato, e come al solito perfettamente mixato. Ottimi sono i dialoghi fra le due chitarre, così come adorabile è il suono, saturo e sempre d’effetto, imposto ai tom della batteria, che il buon Johnny Roberts, batterista della band, non si esime dall’utilizzare frequentemente (provare, per credere, la quarta traccia “Pearls Before Swine”). Passando ai difetti, e volendo fare veramente l’avvocato del diavolo, si può segnalare il cantato talvolta un po’ troppo stabile e, dunque, monotono di Chris Catanzaro (secondo, in quanto ad italo-americanità, probablilmente solo a Vito Corleone), anche se spesso degnamente supportato dalle seconde voci. Nonché il fatto di non aver resistito al cliché del titolo in latino (“Soli Deo Gloria”), pacchianata che forse si poteva evitare e che però, mettendosi una mano sul cuore e facendo appello alla propria coscienza, va compatita, trattandosi praticamente di un concept album dalle tinte talvolta religiose e spirituali. Interessante, infine, è l’esperimento di lanciare messaggi di speranza tramite i curatissimi testi, indipendentemente da come la si pensi riguardo a certi argomenti abbastanza intimi ed introspettivi. Esperimento che, certo, era già stato tentato in passato praticamente in tutti i generi e le sfumature del rock e che, eppure, visto in questa chiave suona come fresco e, soprattutto, sincero e convincente anche dal punto di vista musicale. Cosa non certo facile per chi propone del death metal.
In definitiva, è chiaramente assurdo pensare alla nomina di disco dell’anno o sbilanciarsi in maniera troppo netta, ma nonostante ciò si può considerare questo “Kingdom of Might” come un ottimo lavoro di intreccio fra le varie influenze. Auspicando che continuino su questa scia, non resta altro che far loro i più sinceri complimenti!
Voto: 8