(Earache Records, 2012)
1. Career Suicide
2. Travelling Alone
3. Alternate Ending
4. Lightning & Snow
5. Finalty
6. Death Is Not AnExit
7. Adora Vivos
8. Silver
9. Modern Life Architecture
10. Kiss My Ashes (Part 1)
11. Kiss My Ashes (Part 2)
Le circostanze vogliono che ci si trovi ad analizzare l’ultimo album dei canadesi Woods Of Ypres a pochi mesi dalla scomparsa del polistrumentista nonché band leader David Gold, venuto a mancare tragicamente lo scorso dicembre.
Questo quinto e (purtroppo letteralmente) ultimo lavoro della formazione d’oltreoceano cade esattamente nel decimo anniversario del debutto ufficiale, avvenuto nel 2002 con Against the Seasons: Cold Winter Songs from the Dead Summer Heat, lavoro che sembrava presentare un obiettivo sicuro nel fondere dal lato (paradossalmente, sebbene solo su carta) stilistico ciò che black e doom metal avevano di meglio da proporre: si respira un’aria di verità nel sound di brani come “Awaiting the Inevitable”, dove una sincera voglia di rendere manifesta la tradizionale atmosfera oppressiva del doom si materializza ad un livello ben più estremo (soprattutto dal lato vocale).
A dieci anni da un debutto tutt’altro che da dimenticare ci troviamo ad ascoltare un lavoro diametralmente opposto, frutto di una naturale crescita stilistica e tecnica (attraverso altri 3 album), nonché di una maggiore apertura verso la componente doom ed un conseguente abbandono di tutto ciò che di puramente scandinavo aleggiava, tra profonde clean vocals e sinistre armonie.
E’ necessario, ora, tralasciare questioni tecniche e puramente analitiche per fare spazio a quello che questo album, emotivamente parlando, comunica: è questo il caso di un lavoro strutturato su diversi livelli, il principale dei quali (ed è forse questo il grande paradosso del doom e delle proprie diramazioni) è quello emozionale, che traspare non dalla nostra conoscenza o esperienza soggettiva, ma dal lato più umano e quindi naturale di noi stessi; in poche parole: questo è un album da ascoltare, non da sentire.
Il paesaggio di tenue grigiore dipinto dal sicuro incedere dei brani permette una salda presa sulla nostra attenzione subito ad un primo ascolto, in parte dovuta alla semplice genuinità delle melodie sulle quali voce, chitarra (e, saltuariamente, violino e piano) tendono ad intrecciarsi, sopra ad una sezione ritmica essenziale, come tradizione (a ragione) impone.
Ed è così che con “Career Suicide”, opener di questo Woods 5, ci troviamo divisi tra profonda malinconia e dolce nostalgia, sentimento che sembra tornare molto spesso tra le chiarissime note dei successivi brani; sebbene la ritmica e la struttura melodica del refrain concedano un respiro decisamente catchy al brano, siamo sicuri nel dire che l’esito non è assolutamente deprecabile.
“Travelling Alone” rappresenta uno degli apici dell’interno lavoro, forte di un intrecciarsi di melodie di grandissimo carattere emotivo, talmente lontano dalle origini black da risultarne la perfetta complementarità: la ritmica inizia a distendersi, tra echi di My Dying Bride e derive atmosferiche che tuttavia non si realizzano pienamente; la voce di Gold è calda, espressiva, di una dolcezza inusuale nel proferire parole di invernale desolazione, forse troppo ingenue, forse troppo veritiere.
Tutto questo è confermato e nuovamente reso manifesto dall’innocente struggimento di “Alternate Ending” (per non parlare delle due parti di “Kiss My Ashes”), dalla disarmante purezza melodica, aperta ad una delle poche costruzioni ritmiche propriamente doom metal dell’album, nonché arricchita da un essenziale linea pianistica; all’estremo si pone un brano come “Adora Vivos”, dove echi di un ammansito scream accompagnano una ritmica sugli scudi ed una serie di riff, che nel guardare alle origini perdono parte del freddo fascino che caratterizza le composizioni più riflessive.
Rischiando di dire un’ovvietà, notiamo come è proprio il lato più interiore, forse banalmente interpretabile, a trasparire dalle composizioni di Gold: raramente tutto ciò che proviene (o è catalogabile come) dal doom risulta così sinceramente aperto e facilmente capace di coinvolgere, nel senso più intimo della parola; solitamente tutto questo necessita di ascolti profondi e mai completamente imparziali.
L’ultimo album della creatura di David Gold è una perfetta rappresentazione di cosa dovrebbe essere (e a cosa dovrebbe puntare) oggi il lato più introspettivo della musica estema; senza fare retorica, ci troviamo di fronte ad un perfetto addio, di una sincerità disarmante, di una semplicità quasi commovente.
Ciò che rende questo album a suo modo speciale, è che se Gold fosse ancora tra noi, le emozioni che riusciremmo a ricavare dall’ascolto sarebbero sostanzialmente immutate.
7.5