(2013, Alofror Records)
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Világvége, ossia la fine del mondo. Tematica ancestrale, inevitabilmente connaturata nel pensiero umano, trattata in ogni sua possibile sfumatura, sviscerata dalle espressioni artistiche più disparate. Una scelta impegnativa, quella dei Rorcal, perché lo spettro della banalità è dietro l’angolo: per rimanere in campo musicale, centinaia di band si sono già confrontate con tematiche di questo genere, e molte di essere sono cadute nel tentativo. Per sopravvivere a quest’impresa, i Rorcal cambiano pelle, abbandonando il doom per abbracciare sonorità ataviche, nichiliste, che ci accompagnano verso l’Armageddon. Világvége è un ritorno alle origini, una riscoperta delle proprie radici. La feralità del black metal apre squarci sempre più profondi nell’impianto post che gli svizzeri hanno predisposto per la battaglia, fino all’esplosione finale, che lascia un senso di disfatta ma anche di pace perpetua.
E’ vero, i Rorcal ci hanno stupito. Li avevamo lasciati con Heliogabalus, disco notevole in bilico tra sludge e post-rock, appesantiti da atmosfere nerissime e cariche di pathos; una svolta, peraltro così radicale, non era preventivabile. Certo, a posteriori ci viene da pensare che avremmo potuto intravedere il germe del cambiamento già negli ultimi split, ma Világvége si spinge più in là. Il problema che porta con sé questa brusca virata è sempre il solito, ed è uno dei rischi del mestiere di chi suona black metal: quello di risultare banali e già sentiti. E i Rorcal non sono certo innovativi, questo è bene metterlo subito in chiaro; ma Világvége è un album talmente intenso che l’originalità passa inevitabilmente in secondo piano. Prendono la rincorsa, i Rorcal partono piano per poi lanciarsi ad alta velocità, distribuendo mazzate e non lasciando prigionieri. In questo lunghissimo rito misterico, sono tanti i nomi che ci balenano in mente, ma solo uno è perfettamente calzante: Celeste. I francesi sono indubbiamente un’ispirazione per i Rorcal, che però vanno oltre, e li spogliano di tutti gli orpelli per riavvicinarsi al black metal delle origini. Scelta peculiare, in un periodo in cui il post black metal va per la maggiore, ma che contribuisce a far risaltare difetti che forse si sarebbero potuti nascondere variando un po’ la formula: Világvége è un disco eccessivamente monocorde, ancorato a stilemi che non riesce proprio a scrollarsi di dosso; e, alla lunga, questa situazione non fa che penalizzarne la riuscita finale. Questo senza nulla togliere ad un’esperienza musicale intensa, il cui intrinseco misticismo ci porta in una dimensione ancestrale, che si concretizza alla fine dell’album. Quando, stremati, riusciamo finalmente a percepire l’abisso che ci circonda. Intorno a noi, il silenzio.
7.0