Inutile girarci attorno, Quintessential Ephemera è tra i dischi dell’anno e la possibilità di togliersi diverse curiosità intervistando Matt Weed non poteva che essere un piacere. Diversi aspetti sono stati sviscerati, dall’evoluzione musicale del gruppo a quello che pensano della distribuzione digitale. Buona lettura!
Il nuovo disco è uno stacco netto con il passato. Lo si avverte dal suono e in generale da quello che trasmette. Cosa è cambiato nelle vostre vite?
Oggi ci troviamo in un mood molto più ottimista rispetto ad un paio di anni fa. Ciò è dovuto perlopiù all’incredibile successo di The Anaesthete, che ci ha portato dal quasi scioglimento a una posizione abbastanza sicura, date le realtà dell’industria musicale. Ha avvalorato la nostra fiducia nell’abilità dei fan di sostenere i nostri continui sforzi, ed è stato un grosso sollievo e incoraggiamento. Per non parlare del fatto che abbiamo aggiunto alla formazione Eric alla chitarra e alla voce, con la conseguente espansione del nostro processo creativo.
Da cosa è nata l’idea di chiamare diversi brani “Untitled”?
Abbiamo avuto problemi a scegliere per questi brani dei titoli che fossero appropriati, senza essere goffi o melodrammatici. Sembrava che fosse meglio mantenerli senza titolo e lasciare che parlassero per se stessi, piuttosto che ripiegare su qualcosa di raffazzonato all’ultimo momento. Dopo dieci anni avete deciso di stravolgere in parte la vostra formazione, da cosa è nata questa necessità? Non si è trattato di una necessità, quanto di un desiderio di sperimentazione, e abbiamo avuto una buona idea su cosa aspettarci. Avevamo collaborato con Eric qualche volta in precedenza – aveva cantato sulla nostra cover dei Soundgarden (“4th of July”) e su “Hodoku” di The Anaesthete. E avevamo suonato più di cento concerti in tour con la sua band, i City of Ships. Dunque, da un certo punto di vista, era già pronto a venire a fare musica con noi. Dato che ci era piaciuto così tanto averlo ospitato su The Anaesthete abbiamo capito che avremmo scritto un intero album con lui, e ora siamo qui. Non abbiamo pensato a tutto ciò come a una semplice aggiunta di un chitarrista/cantante, abbiamo voluto specificatamente integrare il suo songwriting nel nostro democratico processo di composizione.
La scrittura dei brani è cambiata profondamente: del post metal degli esordi non è rimasto più nulla. Cosa vi ha spinto a prendere così le distanze dal genere?
Noia, forse. Anche se non penso sia stata una reazione cosciente a qualcosa in particolare – non abbiamo mai passato molto tempo ad ascoltare band che suonassero come noi. Credo che abbiamo semplicemente scritto il disco che volevamo scrivere ed è quello che è. Riflette il punto in cui ci troviamo nelle nostre vite – più vecchi, un po’ più affaticati ma anche ringiovaniti e volenterosi di correre ancora dei rischi.
Che musica ascoltate? I vostri ascolti sono mutati negli anni?
I diversi membri ascoltano cose diverse. Tutti sono sempre sorpresi dal fatto che BJ ascolti quasi solo musica pop e occasionalmente metal molto tecnico. Io, Dave ed Eric amiamo il rock anni ‘90. Ad Armine piace l’hip-hop e strane band crust/hardcore degli anni ’90 di cui nessuno ha mai sentito parlare. Io amo la drone music e considero gli Stars of the Lid come la mia band preferita di sempre. Mi piace molto anche roba come Thomas Köner e Deathprod. Direi che i nostri gusti sono cambiati notevolmente nel recente passato, ma forse la mole di tempo che passiamo con cose particolari è cambiata. Io spendo decisamente molto più tempo con strana musica strumentale rispetto a prima, anche se è sempre stata parte di ciò che mi piace.
Vi affiderete anche per questo lavoro alla formula del “pay what you want” per la distribuzione digitale. Il futuro della musica indipendente passa da qui?
Non so se la prezzatura in scala sia necessaria in tutti i casi, ma penso che sarà cruciale per far sì che i fan supportino direttamente la musica, eliminando il maggior numero di intermediari possibile. Ci sono troppi strati di burocrazia nell’industria musicale che mangiano soldi ad ogni livello. La band in questi casi soffre. Possiamo abolire tutto ciò, ora che internet ha facilitato una connessione diretta tra artisti e ascoltatori. Ma penso che l’industria musicale persisterà col vecchio modo di fare e probabilmente sarà una transizione inutilmente dolorosa ed estenuante.
Oltre alla versione digitale alcune etichette faranno la versione in cd e in vinile di Quintessential Ephemera. Cosa pensate del supporto fisico?
È diventato un vincolo per la libertà di espressione dei musicisti avere una etichetta che produce e distribuisce? Non credo che i media fisici siano più “reali” di quelli digitali. Noi pubblichiamo i nostri album in supporto fisico tramite le etichette perché non vogliamo avere a che fare con la logistica della produzione. Fondamentalmente è un servizio per i nostri fan che amano CD e vinili, perché in realtà guadagniamo molti meno soldi quando è compreso il supporto fisico rispetto a quanto avviene con le release digitali. In futuro potremmo ricorrere al 100% al digitale se il mercato dei prodotti fisici continuerà a declinare. Mentre i collezionisti di vinili sono molto rumorosi circa il loro amore per le edizioni fisiche, la realtà è che i media fisici compongono una parte molto, molto piccola delle vendite totali, e allo stesso tempo costano un’enorme somma di denaro.
Trovate differenze nel suonare live negli States e nel resto del mondo? Il modo in cui risponde il pubblico è lo stesso?
No, negli USA il feedback non è tanto positivo quanto in altri posti in cui suoniamo. Abbiamo sempre trovato il pubblico più numeroso e più riconoscente dovunque oltreoceano piuttosto che a casa nostra. Può essere a causa del fatto che negli USA ci sono davvero molte band e c’è molta competizione per attirare l’attenzione del pubblico, o che semplicemente non c’è la stessa cultura di frequentare eventi live rispetto al passato. Ma abbiamo trovato fantastica l’ospitalità in tutto il mondo, e continua ad essere una sorpresa per noi una così buona ricezione lontano da casa.
Una cosa che stupisce è la differenza molto marcata tra le cover degli ultimi vostri tre lavori. Cosa vi ha spinto a questa scelta?
Abbiamo lavorato con un artista diverso per ogni album. In parte è perché vogliamo evitare una standardizzazione visuale, e anche perché vogliamo che l’artwork sia sorprendente e stimolante, piuttosto che soddisfare semplicemente le aspettative degli ascoltatori. Ci piace davvero violare le aspettative della gente quando si tratta di arte. Ma in ogni caso, abbiamo fornito all’artista una dettagliata descrizione del concept dell’album insieme al materiale audio che era disponibile al tempo, e poi abbiamo lasciato molta libertà su come realizzare il concept. Quindi ogni artista ha avuto una larga porzione di libertà di interpretare le idee nel modo che preferivano.
Una piccola curiosità prima di farvi salutare i nostri lettori: grazie alla vostra canzone “Je N’En Connais Pas La Fin” e quello che mi ha trasmesso ho deciso di chiamare mio figlio Gabriele. Spero che la cosa vi faccia piacere.
È stupendo! È grandioso sentire storie su come la nostra musica abbia influenzato positivamente le persone.