Gli Altar of Plagues sono una delle realtà più originali degli ultimi anni in ambito black metal, e si può dire che siano stati tra i maggiori promotori del black incrociato col post rock/metal. Il capolavoro White Tomb nel 2009 fece crescere notevolmente la loro fama nei circuiti underground, portando appunto la loro formula musicale all’attenzione di molte, forse troppe persone; col tempo la generalizzazione ha portato alla creazione di un unico “sottogenere” in realtà inesistente in cui presunti esperti (più di moda che di musica, diciamo noi) accomunano sotto un unico filone Altar of Plagues, Wolves in the Throne Room e magari pure realtà totalmente diverse da loro e tra loro come Lantlos, Alcest, o A Forest of Stars (ammesso che non si fermino a conoscere solo i primi due). Noi, che non amiamo le generalizzazioni sommarie e che invece apprezziamo l’originalità di queste bands, attendavamo di vedere dal vivo gli AoP da quel lontano 2009, e nel frattempo l’ottimo EP Tides l’anno scorso e il nuovo capolavoro sfiorato Mammal quest’anno hanno fatto crescere ancor di più in noi la voglia di vedere di cosa siano capaci questi irlandesi dal vivo. E non siamo rimasti affatto delusi, perché la serata si è rivelata musicalmente interessante, molto varia e soprattutto economica (un euro a gruppo!). Ecco a voi il resoconto.
Altar of Plagues + Gottesmorder + Marnero + Rotorvator
XM24, Bologna
21/10/2011
ROTORVATOR
Entriamo nei “sotterranei” dell’ XM24 (location piuttosto caratteristica e a suo modo affascinante, per essere un centro sociale) mentre i bellunesi Rotorvator stanno già suonando da un po’, ma in venti minuti (equivalenti più o meno a tre pezzi, crediamo) riusciamo a farci una mezza idea sulla loro proposta, che è si interessante, ma a tratti potenzialmente indigesta. La band è composta da tre elementi: un vocalist dotato di uno scream di stampo black metal piuttosto efficace, un chitarrista con una maglia dei Joy Division suonante trame spesso richiamanti alla band di Ian Curtis, e un terzo elemento agli “effetti” più drum machine. Ne viene fuori un black metal di stampo quasi industrial con non pochi accenni alla melodia: definizione ardua da comprendere, ce ne rendiamo conto, per cui vi invitiamo ad ascoltarli per farvi una vostra idea. Quello che possiamo dirvi noi è che, per quanto la nostra naturale apertura mentale ci abbia fatto stare tutto il tempo concentrati a cercare di capire qualcosa e di apprezzare fino in fondo, la sensazione finale è che i Rotorvator, nell’intento di comporre musica originale e a tratti in un certo qual modo “cervellotica”, il più delle volte falliscano nel loro intento risultando noiosi, mentre quando puntano solo sull’ignoranza e sulle sfuriate gli elementi si amalgamino meglio fra loro. Da rivedere in un miglior contesto, ma intellettualmente stuzzicanti.
MARNERO
Lo ammettiamo fin da subito: coi Marnero è stato amore a prima ascoltata per noi. Abbiamo scoperto il loro nome solo all’annuncio della data mesi fa, siamo andati ad ascoltarli sul loro profilo Bandcamp e non abbiamo potuto fare a meno di innamorarci del loro Naufragio Universale: 5 pezzi a cavallo tra l’hardcore più cupo (non parliamo sempre di black metal per favore!), il post-hardcore in senso stretto, e poesia nera. Con grandi aspettative ci siamo dunque avvicinati allo show di questi cinque bolognesi, ma il primo impatto non è stato dei migliori: dei suoni pessimi hanno fatto sembrare per cinque minuti i Marnero un gruppettino punk rock da festa della birra, rendendo le chitarre un ronzio fastidioso e i testi (un punto di forza del gruppo per il sottoscritto) davvero incomprensibili. Dalla successiva “Zoster” però la situazione è molto migliorata: la voce non ha mai raggiunto gli apici di malignità ed espressività dell’album, ma questo perché il frontman, di chiara origine hardcore punk, sembra preferisca dare, dal vivo, un approccio molto più diretto e meno cupo alla musica, così come il resto della band. A nostro parere, in questo modo le parti strumentali perdono molto fascino, ma è vero che un pezzo più diretto come “Tanto ride tanto piagne” acquista molto più dinamismo diventano un vero anthem da live show. Rimaniamo dunque soddisfatti solo a metà dal concerto dei Marnero, forse per troppo amore del sound particolare che avevamo sentito su Naufragio Universale, ma non possiamo che apprezzare una band che, senza orpelli e senza “tirarsela”, ama scaricare tutta la propria energia potenziale dimenandosi su un palco, piuttosto che stando impalati a fare “i bei tenebrosi”. Questo è davvero (post)hardcore.
GOTTESMORDER
Anche sui Gottesmorder avevamo grandi speranze. Dopo aver sentito l’ultimo ep omonimo (che trovate recensito sulle nostre pagine), ci aspettavamo uno show dal forte impatto, e non possiamo dire che le nostre aspettative siano state effettivamente ripagate. I tre toscani hanno avuto i suoni migliori della serata, hanno suonato bene e hanno appassionato la maggior parte del pubblico presente, ma noi, che pure siamo abituati a band “musicalmente prolisse”, dopo due pezzi (20/25 minuti) abbiamo accusato un po’ la stanchezza. Diciamolo subito: il problema principale è la voce. Se sull’ep il difetto si nota meno, dal vivo, in un contesto in cui, per quanto i tre suonino bene, le cupe atmosfere dei brani registrati non riescono ad essere riprodotte, il timbro monotono (anche nel senso di mono-tono) del cantante risalta in tutta la sua inefficacia. Dopo 40 minuti, facciamo davvero fatica a pensare che i pezzi dei Gottesmorder prevedano dei veri e propri testi. E la cosa paradossale è che i brani del gruppo dal vivo risultino anche molto meno oscuri, come se i tre stessero dando un taglio più “post rock” che “post black metal” (maledette definizioni!) alle loro composizioni. Non che questo sia un male, ma così le vocals appaiono ancor più fuori luogo. Non ce la sentiamo comunque di bocciare del tutto i Gottesmorder, perché il loro “black atmosferico” ha diversi spunti interessanti e perché in generale la risposta del pubblico è stata buona, ma siamo dell’idea che, se un gruppo suona molto meglio su cd che dal vivo, ci sia ancora da lavorare.
ALTAR OF PLAGUES
Ci dobbiamo subito contraddire: gli Altar of Plagues suonano meglio su cd che dal vivo. O meglio: suonano diversamente. Ma questo è sinonimo di intelligenza: essendo i nostri cari irlandesi ben consapevoli che riprodurre le loro magiche atmosfere in un contesto live sia praticamente impossibile (con i suoni mediocri di stasera poi…), hanno evidentemente scelto di puntare su una maggiore immediatezza, scarnificando in parte i loro brani ma suonandoli con un trasporto emozionale e una carica pazzesca per tutta la loro lunga durata. Ne viene fuori uno show a suo modo fisico, oseremmo dire empatico. Visto che va tanto di moda, paragoniamoli con i Wolves in the Throne Room (così sottolineiamo che non c’entrano nulla): chi con noi li ha visti dal vivo l’anno scorso, sa che i WitTR puntano molto sulla base black della loro proposta, ma con un approccio molto statico e lugubre e mettendo in evidenza le eteree melodie delle chitarre. Gli Altar of Plagues, avendo sviluppato le loro basi black metal immergendole in salsa post-core e sludge (parola tanto usata quanto sconosciuta), riescono a dare un impronta in qualche modo più “fisica” ai loro concerti, rendendo la piena riuscita del pezzo non una sua interpretazione fedele, ma un’espressione artistica fortemente condivisa col pubblico, un pubblico emotivamente partecipe e non una giuria di tecnica musicale (anche perché, a voler essere sinceri, di sbavature ce ne son state, e non solo dovute a problemi tecnici). Si parla tanto di attitudine e di “scene musicali”: gli AoP, pur rinnegando giustamente l’appartenenza a qualsiasi scena musicale artificiale, mostrano dal vivo un’attitudine “da hardcore band che suona post rock”, potente e dinamica ma statica al tempo stesso, puntando tutto sull’impatto emozionale dei loro pezzi e non su “sensazioni oscure” o amenità del genere. Ed è per questo impatto emotivo, che ci ha colpito nel profondo, che ci sentiamo di dire che gli Altar of Plagues si sono rivelati un’ottima live band, e che i tanti loro imitatori dovrebbero imparare dalla potenza dei loro shows, piuttosto che inscenare teatrini di introspezione e sofferenza spesso grotteschi. Ma l’attitudine, per fortuna, è qualcosa di inimitabile.
Per la cronaca, dopo l’intro di “When the Sun Drowns in the Ocean”, è stato eseguito tutto Mammal, “Atlantic Light” da Tides, “Earth: As A Furnace” da White Tomb e pure un brano dal precedente Sol. Ma sinceramente, dopo uno show così, della setlist non dovrebbe importare a nessuno.
Chi non c’era, non si perda la prossima.