(Inside Out, 2015)
1. The Price
2. Third Law
3. Rewind
4. The Flood
5. Triumphant
6. The Conspiracy of the Blind
7. Within my Fence
8. Red
9. Slave
10. Moon
11. Down
12. Lower
Dopo un album non del tutto convincente come Coal, i Leprous tornano all’attacco con un nuovo, massiccio, full length. Le giovani promesse del prog metal norvegese ci propongono un sugoso platter di ben dodici pezzi, tutti di durata compresa tra i cinque e i sette minuti, un elemento che fa alzare più di un sopracciglio, se si ripensa alla discreta durata dei grandi capolavori del combo norvegese (dieci minuti per “Forced Entry”, di Bilateral, e undici minuti per “White”, di Tall Poppy Syndrome).
Il primissimo impatto è sconvolgente. “The Price” (che a suo tempo fu anche singolo apripista dell’album), è probabilmente quanto di più lontano i nostri nordici eroi abbiano mai affrontato, pur mantenendo i tratti fondamentali del sound Leprous. Stiamo parlando di un pezzo costruito su un riff memorabile, sostenuto da una sezione ritmica che definire chirurgica è dir poco. Dopo una consueta introduzione e una strofa quasi sussurrata, il pezzo svela un ritornello che, se non si fosse sicuri di star ascoltando i Leprous, si penserebbe di star ascoltando il miglior pezzo mai rilasciato dai Muse. Il gruppo norvegese per questa uscita pesca tantissimo dai lavori migliori del combo britannico, ma in qualche modo riesce a ribaltarne certi elementi, creando una miscela veramente interessante. Al posto dei barocchi arrangiamenti dei britannici, qui abbiamo delle strutture molto più sobrie, sostenute da un riffing sempre convincente e da un drumming spettacolare. La sobrietà della sezione strumentale permette alla voce di Einar Solberg di potersi espandere senza limiti, esplorando tutte le possibilità dinamiche che può offrire una voce versatile come la sua.
La fortissima virata verso questa sorta di prog-pop molto personale continua anche nei pezzi successivi, senza alcun calo di intensità. Ritroviamo i ritornelli estremamente “cantabili” (anche se stare dietro agli acuti di Solberg non è lavoro facile) e le strofe dominate dalla presenza delle chitarre a otto corde, che però non sono suonate col classico (e ormai tristemente abusato) metodo delle corde a vuoto e del downtuning estremo, ma sono invece utilizzate in maniera sapiente, senza abusare delle corde più basse. I suoni sono ottimi, anche se ogni tanto si ha l’idea di una produzione eccessivamente plasticosa. La batteria e la voce sono in primissimo piano, lasciando un po’ indietro le chitarre e le saltuarie parti di tastiera. Basso invece nella norma per produzioni di questo genere, senza picchi qualitativi.
Parlando di difetti è difficile trovare imperfezioni in The Congregation. Le composizioni sono estremamente compatte, e di fatto risolvono il problema che aveva rovinato il precendente full length, ovvero la prolissità eccessiva di certe sezioni e la ripetizione nauseante di certe linee vocali (ve lo ricordate l’estenuante ritornello di “The Valley”? Ecco, nessun pezzo di The Congregation vi provocherà una noia tale). Se proprio vogliamo trovare un difetto all’opera dei Leprous possiamo forse indicare la perdita di quella componente progressive che li aveva contraddistinti agli esordi, perdita che però ha portato ad una maggiore concentrazione sulla rifinitura e sulla qualità effettiva dei brani.
In conclusione, The Congregation è un disco fantastico, sotto ogni punto di vista. Solberg riuscirebbe a far suonare divinamente anche una band mediocre, ma dietro di lui troviamo musicisti preparati e delle composizioni estremamente solide. Forse abbiamo sottomano un disco più semplice rispetto ai predecessori, ma ci troviamo sicuramente di fronte al loro lavoro più raffinato, rifinito e completo. Dopo la delusione completa rappresentata da Drones dei muse, The Congregation ha riempito nel mio cuore quella piccola alcova che un tempo era dedicata al gruppo britannico. Consigliato a tutti, anche a chi non ha mai approcciato il progressive metal in vita propria.
8.0