(Rise Records, 2014)
1. Refuse To Believe
2. Lunatik
3. Gone
4. Echoes
5. You Want Me
6. Tangled Tongues
7. Hero With No Name
8. Darker Days
9. End Of Me
10. Saints, Sinners and Greats
Ammetto la mia colpevolezza riconoscendomi confuso quando si deve distinguere tra Miss May I, Memphis May Fire o We Came As Romans che siano. Diciamo che al di fuori dell’aspetto esteriore e del logo della band, le differenze che intercorrono tra loro si contano sulle dita di una mano. Purtroppo è uno degli esempi più eclatanti di mainstream che ha prevalso sul modo di far musica: baldi giovani che suonano un finto metalcore, vestiti glam, trucco, parrucco e strumentazione esagerata, sono la costante di queste band create per vendere milioni di dischi, ma comunque sia, faccio subito mente locale e parto con la recensione.
L’album che ha cambiato la storia per Miss May I è stato senza dubbio At Heart, il quale ha permesso loro di diventare per la prima volta headliner per piccoli tour europei e non, ed in altre occasioni ha dato l’opportunità di sostenere band molto più importanti come Five Finger Death Punch, guadagnando una notevole quantità di nuovi ascoltatori e persone costrette a prestare attenzione, me compreso. La band ha avuto successo con brani come “Relentless Chaos” e “Gears” ed ora, fortificati dalla presenza di Terry Date, produttore anche di Pantera e Deftones, ci si aspetta che questo Rise Of The Lion sia l’album che porterà la band nell’Olimpo del metalcore anche se, torno a dire, di metalcore c’è ben poco.
“Refuse To Believe” è un brano niente male, gradevole, ma manca di personalità: si tratta del classico pezzo strofa-ritornello-strofa-ritornello-breakdown costruito dietro ad un computer, con riff metal tirati a balestra che si sono ascoltati e riascoltati per anni. Bella, molto bella invece la chiusura di “Lunatik”, forse l’unica parte realmente associabile al metalcore. Si prosegue con “Gone” ed “Echoes”, il primo veloce e il secondo più cadenzato, contornati entrambi dalle clean vocals di Ryan Neff, che comunque non colpiscono più di tanto. “Hero With No Name” è un’ode al classico patriottismo militare che recita “mettiamoci tutti in prima linea a combattere per ciò in cui crediamo“.
Il disco alterna momenti più rock come in “You Want Me” ad altri più furibondi, come si può sentire in “Tangled Tongues” che addirittura azzarda un blast beat, mentre il testo di Levi Benton tratta delle problematiche che si affrontano durante un divorzio. Il vero punto di forza della band è però Jerod Boyd, un batterista dotato di talento incredibile (è davvero piacevole vederlo suonare dal vivo), ed il suo ritmo forsennato permette a brani come “Darker days”, “Hero With No Name” e “Saints, Sinners and Greats” di essere positivi ed efficaci. La voce grintosa di Benton suona altrettanto potente come in passato ed è forse proprio questa la differenza che intercorre tra le già citate boy-band all’inizio della recensione ed i Miss May I. Tuttavia, Rise of The Lion è un disco che non vi farà di certo sanguinare le orecchie: potrebbe al massimo far parte della vostra playlist per quando vi accingete ad entrare sotto la doccia.
5.0