(Parlophone/EMI, 2012)
1. Ég anda;
2. Ekki múkk;
3. Varúð;
4. Rembihnútur;
5. Dauðalogn;
6. Varðeldur;
7. Valtari;
8. Fjögur píanó
Profondi, commoventi, coinvolgenti, ma soprattutto unici. Questo sono i Sigur Rós, uno dei gruppi post-rock che ha saputo raccogliere intorno a sé più fan e che è riuscito a resistere al prevedibile e vorticoso calo compositivo che affligge i capostipiti del genere da un po’ di tempo a questa parte (basti pensare a Explosions In The Sky e soprattutto Mogwai). Sarà per il particolarissimo cantato di Jónsi, per l’uso del linguaggio hopelandic per i testi o per il fortissimo senso di melanconia che sprigionano i brani, i quattro islandesi giungono alla luce del sesto album con ben pochi errori in una carriera (a parte forse il mezzo passo falso di Með suð í eyrum við spilum endalaust) che comprende rielaborazioni, remix e addirittura lungometraggi come l’ispirato Heima.
Valtari cambia leggermente registro, pur essendo Sigur Rós al cento per cento presenta alcune ottime variazioni sul tema oltre a due esperimenti che sembrano davvero ben riusciti: come base si può prendere tranquillamente una “Sæglopur”, unirla ai passaggi più scarni e malinconici di () ed aggiungerci un po’ di elettronica assieme a qualche andamento ad ispirazione ambient. Questo in soldoni è Valtari, ma è solo questo? Ovviamente no. Se con il primo singolo uscito, “Ekki múkk”, sembrava non ci fossero troppi cambiamenti, è con lo svilupparsi del disco che si incontrano gli episodi più particolari e le perle in esso nascoste. “Varúð” è la prima e la più preziosa di queste, in cui compaiono (o per meglio dire, scompaiono) alcuni elementi: se la forma canzone rimane, è la sessione ritmica a venire sacrificata a vantaggio di un maggiore uso di piano, archi e soprattutto voce, verso un’intensità difficilmente replicabile. Questa sembra la direzione a cui i Sigur Rós aspirano, una dimensione sempre più impalpabile, quasi fiabesca, in cui non sono solo i crescendo tipici del post-rock a trascinare chi ascolta ma dove si può rimanere atterriti anche da un brano semplice e scarno come “Fjögur píanó” (di cui è appena uscito anche il videoclip). Sullo stesso stile si situano anche “Dauðalogn” e “Varðeldur”, mentre la centrale “Rembihnútur” vira leggermente verso territori più Boards Of Canada, riuscendo ottimamente nell’intento.
Null’altro rimane da dire se non immergersi nuovamente in Valtari. Chi si aspettava semplicemente un disco alla Sigur Rós troverà pane per i suoi denti, un pane decisamente migliore del precedente Með suð í eyrum við spilum endalaust anche se sicuramente meno accessibile e commerciale sotto un certo punto di vista; a questo punto non rimane che fremere in attesa della data italiana di inizio Settembre. Commovente.
8.5