1. Sparks
2. Old Ghost / New Regrets
3. Dream Run
4. Wild Eyes
6. The River
7. Swing
8. The Slow Surrender
9. Atlas
10. Sleight of Hand
11. Snake Oil and Holy Water
12. Blue and the Grey
Cinque ragazzi australiani cresciuti a pane, surf e metalcore da anni sono sulla cresta dell’onda producendo dischi su dischi e, soprattutto, girando il globo il lungo e in largo (basta dare un occhiata al loro nuovo dvd per capire cosa intendo) conquistando fans ad ogni concerto che tengono: parliamo dei Parkway Drive. Spiegata così la loro storia è simile a quella di molte altre band ed effettivamente il loro percorso musicale è abbastanza regolare ma la perseveranza e il fatto di essere nati in una terra davvero florida (in ogni campo) li ha di certo aiutati a costruirsi una fanbase che li supporta da anni e che, inevitabilemente, aiuta ad alimentare l’hype pazzesco che si crea attorno ad ogni loro uscita; tra una miriade di band simili i Parkway Drive si sono sempre distaccati dalla massa e nonostante non proponessero niente di rivoluzionario sono riusciti a far parlare di sé in maniera quasi sempre positiva anche grazie ad un impatto live coinvolgente e devastante. Così, dopo l’ottimo Horizons e il meno buono Deep Blue, i nostri licenziano nel 2012 tramite l’Epitaph Records il loro ultimo disco intitolato Atlas.
L’album si apre con un’introduzione arpeggiata e parlata che ci prepara all’avventura sonora dell’album, che dopo questo momento riflessivo si apre in tutta la sua potenza con “Old Ghost/New Regrets“, una manata in piena faccia in tipico stile Parkway Drive: l’evoluzione del loro sound come sempre non è stravolgente, i nostri rimangono in bilico tra l’aggressività dell’hardcore e l’abrasività del loro lato più metal, i breakdowns non mancano mai e faranno felici i moshers di tutto il mondo che avranno pane per i loro denti nel pit. Il finale, inaspettato, di “Dream Run” sembra rubato ai Killswitch Engage o in generale a quel metalcore di inizio 2000 che era molto più ancorato su territori metal che hardcore e che ancora non era salito di prepotenza alla ribalta. Continuando l’ascolto del disco non si registrano grossi cali di tensione, le melodie sono affidate per lo più alle partiture dei chitarristi Jeff Ling e Luke Kilpatrick mentre il carismatico leader Winston McCall la fa da padrone arricchendo la proposta con linee brutali al punto giusto, con un decisivo incupimento delle tematiche trattate nei testi (intuibili già dall’artwork). I nostri però danno il meglio di sé nell’episodio più completo dell’intero lotto che compone la tracklist, l’audace “Swing”, impreziosita da un assolo nel bridge davvero azzeccato nonostante la velocità sempre temperata del pezzo. Sulla stessa scia si pone “Wild Eyes”, nella quale un filtro sulla voce di McCall lo avvicina ad un Chino Moreno in versione inedita e un finale in coro strizza l’occhio quasi agli Iron Maiden (ascoltare per credere); “Dark Days” è il primo singolo estratto e rimane forse il momento più pesante di questo Atlas, dopo quel ticchettio iniziale che introduce ad un pezzo ragionato nella sua partitura, violento nella sua immediatezza e maturo nel suo complesso.
La spensieratezza del disco che aprì loro le porte del grande pubblico, Killing With A Smile, unita alla consapevolezza dei propri mezzi mostrata in Horizons, è la sintesi perfetta per descrivere questo nuovo album, opera di una band ormai matura che segue la sua strada cosciente del fatto che ai sostenitori vecchi non potranno che aggiungersene di nuovi perché, in fin dei conti, i Parkway Drive riescono a “modernizzarsi” album dopo album senza far storcere il naso ai die–hard fans.
7.0