(Sargent House, 2013)
1. Memoriam
2. Deficit
3. 1777
4. Cheyenne
5. Burial
6. Ethel
7. Lebaron
8. Memorial
La costanza paga, ed il concetto pare sposarsi benissimo con il percorso musicale dei Russian Circles: partiti umilmente oltre sette anni fa come una delle innumerevoli realtà post-metal/post-rock del sempre nutrito circuito americano, oggi il trio di Chicago rappresenta sicuramente, almeno a livello mediatico, una delle punte di diamante di questo sottogenere, grazie ovviamente alla qualità con cui, album dopo album, ci hanno prima sbalordito ed in seguito abituato ed affascinato. Memorial è il quinto marchio del gruppo in carriera, e proprio per quanto detto fin’ora spiace registrare per la prima volta un leggero calo di tensione nella musica dei Nostri, che ci avevano “viziato” con delle releases in costante crescita in termini di songwriting e qualità.
Il secondo lavoro rilasciato per Sargent House infatti non rappresenta certo una debacle manifesta, né tantomeno un album deludente ed insufficiente, ma semplicemente, come era verosimile aspettarsi prima o poi, la band non riesce ad evolvere ulteriormente il discorso come era stato fatto fino ad oggi, realizzando qualcosa oggettivamente inferiore rispetto al precedente Empros. Per stessa ammissione dei suoi componenti, i Russian Circles cercano oggi, forse per differenziarsi in parte dalle migliaia di band-clone sparse in giro, di scindere palesemente la componente eterea e “sognante” del proprio sound, da quella più pesante, più metal, da sempre incorporata nel loro stile e nelle loro sonorità. Ne risulta quindi per ovvia conseguenza del materiale abbastanza contrastante, piuttosto scollato nelle sue varie parti che vivono di momenti riusciti alternati ad altri invece un po’ meno incisivi e poco concludenti. Piacciono i passaggi più tesi di “Deficit” e le atmosfere rubate quasi al death metal di “Burial”, il clima surreale di “Cheyenne” e lo splendido incanto vocale evocato dall’ospite d’eccezione Chelsea Wolfe, che riesce davvero ad impreziosire in maniera unica la finale titletrack di Memorial, sola traccia non strumentale nell’intera carriera dei Cerchi Russi. Più canoniche invece canzoni come “1777” e “Lebaron”, impigliate in un’estetica “post” sviluppata sinceramente meglio da band nate forse proprio col poster di Mike Sullivan e soci nelle loro camerette: quando l’allievo insomma supera il maestro.
Di momenti di ottima musica Memorial non deficita, così come non mancano le oramai celebri sovrapposizioni di loops e campionamenti che hanno reso grande la band americana: si sente tuttavia la mancanza di partiture davvero memorabili, di quelle che da sole valgano l’acquisto dell’intero full-length. Una momentanea battuta d’arresto è sicuramente concessa ad un gruppo che fino ad oggi ha sbagliato davvero poco, speriamo solo non diventi uno standard qualitativo abituale per loro. Si tratterebbe secondo noi di una pecca imperdonabile.
6.5