(Candlelight Records, 2012)
01. The Blood-Dimmed Tide
02. Forging Towards the Sunset
03 .To Spite the Face
04. Todos Somos Humanos
05. In Coelo Quies, Tout Finis Ici
06. You Can’t Save Me, so Stop Fucking Trying
07. Make Glorious the Embrace of Saturn
08. Feeding the Beast
09. Of Fire, and Fucking Pigs
10. A Metaphor for the Dead
La vanitas è una tematica pittorica tipica del XVII secolo, che accosta tra loro diversi elementi richiamanti la transitorietà, l’incontrastabile brevità della vita: teschi, simboli di morte, ma anche candele e clessidre; l’uomo è solo, completamente in balia del Fato, ed è conscio della precarietà della propria condizione. “Vanità delle vanità: tutto è vanità”, si legge nel Qoeleth. Gli Anaal Nathrakh, da sempre avvezzi all’utilizzo di tematiche ‘alte’, prendono in prestito queste metafore per disegnarci la loro visione dell’uomo e della sua condizione di perpetua caducità.
Se Passion rappresenta l’espiazione, l’estenuante marcia verso la redenzione, Vanitas è la ricaduta nel baratro. Al di là di in un paio di casi (“Forging Towards The Sunset” il più degno di nota), c’è meno spazio per le onnipresenti clean vocals di Passion, che lo avevano reso un album unico nel suo genere: le melodie sono sempre in primo piano, ma il mood generale è più cupo, opprimente; si respirano solo negatività e disperazione, come ai tempi di Eschaton e Domine Non Es Dignus. Questo ritorno alle origini non deve però ingannare: le novità ci sono, non eclatanti ma facilmente individuabili. In particolare, notiamo una certa voglia di sperimentare con l’elettronica, che porta a risultati piuttosto interessanti: nello specifico, “Todos Somos Humanos” è interamente costruita su un gioco tra riff tipicamente black metal e potenti beat techno, che creano un’atmosfera straniante e post-apocalittica. Quello che stupisce degli Anaal Nathrakh è il contrasto stridente fra la feralità della musica e la precisione delle composizioni: Vanitas, ad un orecchio distratto o poco abituato, potrebbe sembrare un disco approssimativo, attento più alla sostanza che alla forma; in realtà, Mick Kenney ha curato ogni dettaglio in maniera maniacale, partorendo un magma sonoro caotico ma con un senso logico ben delineato. Da questo punto di vista, Vanitas è forse il disco più maturo della band inglese: le composizioni sono varie come mai prima d’ora, i riff passano con disinvoltura dal grind al black metal più oltranzista, con inaspettati momenti groovy e richiami postcore, e la prestazione vocale di V.I.T.R.I.O.L è come al solito ispiratissima. Un’analisi track-by-track ha poco senso, perché questo è un album che funziona nel suo complesso, andando al di là dei singoli episodi. Una volta terminato l’ascolto, ci resta la consapevolezza di trovarci davanti a qualcosa di unico, originale e qualitativamente superiore alla maggior parte degli altri gruppi estremi in circolazione.
E’ forse questa la summa del progetto Anaal Nathrakh: due menti geniali che si uniscono e creano, un po’ consapevolmente, un po’ prendendola come una assurda forma di divertissement, un caos sonoro senza precedenti: è la musica più estrema che si possa trovare in circolazione. Si, perché esistono molti gruppi più potenti, più oscuri, più veloci degli Anaal Nathrakh, ma nessuno di loro riesce a far convivere all’interno dello stesso disco anime così differenti, senza perdere il contatto con la visione d’insieme: la tragica condizione umana è il fil rouge che lega tutta la costruzione ermeneutica della band, sviscerata ed approfondita in maniera solo in apparenza superficiale; in realtà questa sfrontatezza, questa irruenza nascondono una profondità sorprendente, che non si limita allo sviluppo di tematiche già di per sé molto interessanti, ma va a spostarsi anche sul piano musicale. Quello degli Anaal Nathrakh è un progetto straordinario, una creatura unica all’interno dell’asfittico panorama estremo moderno, e in quanto tale va preservato e approfondito. Aspettando un altro disco che, siamo pronti a scommetterci, non ci deluderà.
7.5