Godflesh, carne di dio, essenza e sostanza allo stesso tempo. Un concetto discordante, un vero e proprio ossimoro, e per questo mai tanto distante quanto vicino alla musica che in oltre 25 anni di carriera Justin Broadrick e B.C. Green hanno concepito e sintetizzato in quasi totale assenza di riferimenti. ‘Concepire’ e ‘sintetizzare’: due verbi che non ho usato a caso, perché da sempre la miscela dei Godflesh presenta una componente animale e una robotica, e con A World Lit Only By Fire carnalità e sintesi sono finalmente tornate a coesistere in perfetto equilibrio.
Parlare dei Godflesh non è cosa facile né da fan sfegatato né da totale indifferente, perché accostarsi alla loro musica richiede grande impegno e dedizione in entrambi i casi. Verrebbe da dire che ‘o li si ama o li si odia’, così come o si crede in qualcosa o no, e per certi versi la loro proposta artistica è un po’ come il Verbo: dogmatico, straniante ed esigente, un modo diverso di vedere le cose al quale aderire con integrità assoluta o dal quale semplicemente astenersi. Questa strana formula di dedizione è rispecchiata dall’approccio rigoroso dei Godflesh stessi nei confronti della loro musica, nell’attenersi ai ferrei canoni stilistici auto-imposti, nella devozione a quell’ascetismo sonoro maturato negli anni e caratterizzato da un suono essenziale, scevro di orpelli, decadente e brutale quanto le tematiche che lo animano e gli fanno da sfondo. E qui non si può parlare di mancanza di idee, autoreferenzialità o ripetitività, ma di assoluta fedeltà alla formula originale e – per quanto possa essere terribilmente ambiguo dirlo coi tempi che corrono – di puro e sano integralismo.
Musicalmente, JK e BC sono tornati ai fasti e all’ispirazione di Streetcleaner e Pure, e fa un certo effetto constatarlo a più di vent’anni di distanza. Abbandonate le parti eteree e dubbeggianti degli ultimi lavori pre-pausa-di-riflessione, la carne di dio ha ripreso la tonicità degli esordi. Muscoli e nervi su un’ossatura snella e ben architettata, un ingranaggio in moto, un corpo che vibra sotto uno sforzo: la musica del terzo millennio secondo il modello della catena di montaggio di Ford, dove le differenze tra uomini e macchine si assottigliano fino a rendere le due parti un indistinguibile tutt’uno. Ecco allora gli automatismi e la ripetitività a far da padroni, i riff disumanizzati e martellanti sono tornati col vigore marziale degli inizi, le ossessive scansioni mid-tempo, la saturazione insostenibile di basso e chitarra, la voce monocorde e rabbiosa, perfino l’essenziale ma eloquente artwork (chi si ricorda dei fotogrammi di Maya Deren e di Andres Serrano?)… tutto concorre a particolareggiare quel quadro di decadenza post-industriale che i due inglesi non hanno ancora finito e chissà se finiranno mai di dipingere.
Per il resto credo sia praticamente inutile parlare di singoli pezzi. È vero, il lavoro è composto da ben dieci titoli originali (e tre remix dub in alcune versioni), ma i dischi dei Godflesh vanno ascoltati (o meglio: subiti) in soluzione unica. Non è facile incassarne il colpo e uscirne rilassati e incolumi, ma tale prova di sopportazione è paragonabile, nel suo piccolo, all’estrema concentrazione necessaria per recitare e farsi travolgere da un mantra, ad un esercizio di fede, al frenetico roteare che conduce il derviscio alla trance, all’ossessività e alla brutalità della vita quotidiana che portano l’uomo moderno alla nevrosi, o a tutte quelle cose che, se non innalzano ad un livello superiore di crescita interiore e consapevolezza, facilmente conducono all’autodistruzione.
Se qualche mese fa l’ep Decline And Fall aveva rotto il silenzio come un fragoroso monito celeste, con A World Lit Only By Fire ho avuto la definitiva conferma che Godflesh esiste.
(Avalanche Recordings, 2014)
01. New Dark Ages
02. Deadend
03. Shut Me Down
04. Life Giver Life Taker
05. Obeyed
06. Curse Us All
07. Carrion
08. Imperator
09. Towers Of Emptiness
10. Forgive Our Fathers