(Lancashire And Somerset, Atypeek Music, 2015)
01. Went Right
02. She Calls After You
03. Percentages
04. Look
05. Solo
06. Good Shit
07. West Virginia
08. Enopolis
Ho sempre pensato che esista una sottile linea di separazione tra le forme d’arte. Talvolta è stato un quadro a ricordarmi una melodia, talvolta è un suono a rievocarmi un libro, in altre occasioni la lettura di un libro non sarebbe stata la stessa senza la musica che avevo in sottofondo. Gli Enablers sono quattro musicisti, ma mi restituiscono le stesse sensazioni che ho provato la prima volta in cui ho letto Cheever o Carver in lingua originale e la stessa impressione che mi ha fatto un quadro di Hopper o una foto della Arbus. Assemblano melodie manco avessero pennelli o macchine fotografiche in mano in paesaggi urbani di rara bellezza, giocano con le parole e le piegano al volere delle note, o forse fanno il contrario, fatto sta che – pur narrando di situazioni e persone comuni – sanno essere ‘bigger than life’, in un modo genuino e diretto, un raro pregio che – nel contesto della musica cosiddetta indipendente – talvolta apre una breccia più profonda di altre nel cuore di chi li ascolta con attenzione.
Siamo arrivati al quinto disco e non è cambiato niente. The Rightful Pivot mette in scena le stesse chitarre che si stuzzicano, s’abbracciano e rotolano via, la stessa batteria fluida che scorre impetuosa, la stessa voce non impostata che affresca quadretti di non facile digestione dei dischi precedenti. Stanchi di tutto ciò? Grazie al cielo no. Gli Enablers sono uno di quei gruppi che non si rinnova perché non può farlo: sarebbe come modificare il proprio dna e autodistruggersi. Per cui vanno presi per ciò che sono, musicisti con le idee chiare, forse così strafatti della realtà che li circonda da non poter fare a meno di rievocarla nelle loro canzoni, che sono vita e musica in una sola cosa. Ecco allora le asperità strumentali e gli improperi di “Went Right”, un’apertura in salita, bastarda e sincopata, dove un uomo si trova a camminare nella parte sbagliata della città e sfugge alle botte sotto una pioggia battente, la soffice “She Calls After You”, i nove minuti arpeggiati di “Look”, in bilico tra un Jeff Buckley ispirato e una confessione notturna con tanto di cori liberatori, l’incalzare rabbioso e sinistro di “Solo”, il menare con stile di “West Virginia” e i deliri spaziali di “Enopolis” in chiusura. In tutti i pezzi un Pete Simonelli ispirato trasforma la musica in pagine bianche su cui scrivere storie. In definitiva The Rightful Pivot si dimostra più omogeneo e acquoso/solforoso rispetto al precedente Blown Realms And Stalled Explosions. Pare addirittura che dietro ai pezzi serpeggi un leitmotiv ripetuto e appena abbozzato, un arpeggiare improvvisato di chitarre tenute assieme dalla batteria che lega i brani e li rende una soluzione unica. Strano a descriversi, ascoltate e magari vi capiterà di provare la stessa cosa che ho provato io. Nonostante sia un disco di canzoni, stavolta è il mood generale a decretarne l’incisività.
I quattro californiani non sono più dei giovincelli, eppure suonano musica sempreverde davanti a gente per lo più giovane, che li accoglie con calore ovunque essi vadano (date un’occhiata ai video delle loro trasferte francesi) e sa accostarsi al loro stile, quello che ultimamente viene definito ‘spoken word’, un atto per niente scontato di fronte alla progressiva sintetizzazione/sterilizzazione del suono che spesso sempre più volge a sfavore della voce come mezzo espressivo per antonomasia nella genesi del pop. Eppure non sono facili da digerire: come i Massimo Volume per noi italofoni o come gli Slint (e pensate che impatto ebbero sull’underground americano e non solo tra ’80 e ’90!), hanno la qualità/difetto di non prediligere i testi rispetto alla musica o viceversa, ma di fare perno (the rightful pivot?) su entrambi in egual misura. Se di sicuro la musica è in primo piano, di certo non è semplice schivare le parole di Pete Simonelli, così come non è facile apprezzare le sue storie senza la trama tessuta dalle corde di Goldring e Thomson e dalle pelli letteralmente accarezzate dal nuovo arrivato Ospovat. Solo così il quadro è completo e non potrebbe essere diversamente, le une sole rispetto alle altre perderebbero la loro forza evocativa.
Ancora una volta è la vecchia guardia a insegnare a quella giovane la bellezza di fare arte senza pretese e di riuscirci con umiltà e classe.
8.0