Il Temples è un giovanissimo festival che si tiene a Bristol, giunto alla sua seconda edizione. Anche se il nome potrebbe richiamare visioni occulte e ancestrali, in realtà questo deriva dal quartiere in cui il festival viene organizzato, Temple Meads. L’evento è organizzato al Motion, un complesso di due fabbricati dismesso e riorganizzato in vari ambienti, tra cui uno skatepark indoor e diverse aree in cui presentare concerti. A differenza della prima edizione è presente un terzo palco nel fabbricato più piccolo; inoltre lo staff e le band sono aumentate e si ha l’impressione che già dopo un anno i miglioramenti funzionali e tecnici siano notevoli. E’ curioso pensare a come Francis Mace possa avere realizzato in poco tempo un festival che coinvolge cosi tanti e importanti nomi di spicco nello scenario hardcore, metal e rock; ci piace il modus operandi, la scelta stilistica delle band e persino l’attitudine che indirettamente viene mostrata tramite lo slogan “no sponsors, no gods, no masters”, visibile sulla pagina facebook del festival. Volendo cercare “il pelo nell’uovo” possiamo dire che risulta ancora un po’ carente la zona ristoro: le strutture e le scelte in fatto di cibi e bevande sono ridotte, ma è anche vero che siamo italiani in Inghilterra e non è il caso di avere particolari pretese culinarie. Tutelare ed elevare band cosi “rumorose” non è impresa semplice, ma il Temples pare avere tutte le carte in regola per essere un nuovo importante punto di riferimento europeo. Questa promettente tre gioni inglese viene descritta dalle parole di venomous, bitterends e STRX.
TEMPLES FESTIVAL DAY 1
MOTION, BRISTOL
29 / 05 / 2015
A causa del tour saltato dei Today is The Day, i Martyrdöd sono stati spostati dal primo al secondo stage per sostituire gli americani. I tre stage sono ben studiati e bilanciati, ognuno ha come linea guida il genere del gruppo headliner: ad esempio, nel primo chiudono i Converge, quindi per mantenere una certa coerenza nella proposta ad anticiparli troviamo Trap Them, Nails e cosí via. Purtroppo a causa dell’accavallamento degli orari non siamo riusciti a mettere piede nel terzo stage per tutto il venerdì, ma questo è un inconveniente prevedibile in festival che adottano questa formula.
Inaugurando la nostra prima commissione inglese targata GOTR ci addentriamo nel main stage, dove stanno già suonando i Throats, una granitica post hardcore band londinese che dopo quattro anni di pausa si è riformata e si accinge a pubblicare nuovo materiale: l’impressione che rimane è decisamente buona. Sul secondo palco si inizia con gli Oblivionized, trio londinese che propone un efficace mix tra grindcore e death metal. Freschi della release di un full length decisamente convincente, i chaos/grindcorers presentano un concerto coinvolgente e potente (nonostante la line up a tre, batteria/chitarra/voce, possa lasciare interdetti di primo acchito, dal vivo non si sente la mancanza del basso o di una seconda chitarra). Mescolando l’approccio caotico di gruppi quali Dillinger Escape Plan o As The Sun Sets al grind di Discordance Axis con una sana dose di attitudine punk, gli inglesi riescono sicuramente a rimanere impressi nelle orecchie del pubblico del Motion.
Tornando nel main stage ci accorgiamo che c’è stato un ulteriore cambio di programma: sono già sul palco gli Young and in the Way, nuovo cavallo da corsa della scuderia Deathwish. La band del North Carolina lascia poco spazio ai convenevoli e inizia a tingere di nero l’atmosfera del Temples, presentando gran parte del l’ultimo lavoro When Life Comes To Death, di cui abbiamo già parlato sulle nostre pagine. Sono le 15.30, la gente ancora deve “scaldarsi” e i suoni non sono del tutto definiti, tuttavia gli americani senza batter ciglio regalano uno show professionale e sentito, nonché uno pseudo tributo alla scena metal norvegese senza il rischio di apparire pacchiani. Speriamo di rivederli presto anche su palchi italiani.
Il pomeriggio prosegue con gli Harm’s Way di Chicago, brutale straight edge hardcore band, anch’essa con un nuovo album rilasciato dalla Deathwish, Rust. Il palco viene letteralmente colmato dalla presenza immane di James Pligge, che si agita, canta e salta, dando l’impressione di somigliare ad una versione hardcore dell’eroe verde della Marvel. Il loro è uno show notevole che, sorretto da solidi riff in bilico tra thrash metal e hardcore, risulta potente sotto tutti gli aspetti.
Una delle performance che di sicuro ci ha più convinto è quella dei belgi Leng Tch’e, tra l’altro una tra le pochissime band prettamente death/grind previste al Temples Festival. La prima menzione d’onore va a Serge Kasongo, che tra potenti pig squeal e growls richiede plausi al grindcore e al supporto della sua scena, trasmettendo notevole energia e convinzione. Il pubblico è davvero coinvolto e non appena viene annunciato il featuring con Zac Broughton, cantante degli Oblivionized, lo scenario diventa allo stesso tempo violento e divertente.
Sono le 18.30 e nel main stage ci aspetta una delle esibizioni più entusiasmanti dell’intero festival. Nonostante un ultimo disco leggermente sotto tono, i Trap Them sono come sempre una garanzia in sede live. Il frontman Ryan McKenney passa l’intera performance tra le prime file, mentre il resto del gruppo costruisce un vero e proprio muro di suono sul palco. La scaletta presentata è più che altro composta dai brani dell’ultimo disco, vecchi e nuovi fan apprezzano e si scatenano nel pit in maniera forsennata. Arriva poi il turno dei Martyrdöd. Il gruppo parte senza compromessi con “Hör Varningen!”, cavalcata d-beat intransigente; purtroppo per gli svedesi tutti gli strumenti sono sovrastati dalla batteria, che rende incomprensibile differenziare i passaggi della canzone. Si procede con estratti dell’ultimo album, ma la volontà di tastare la bontà dei nuovi brani dal vivo continua a scontrarsi con l’impossibilità di distinguere una canzone dall’altra. A un certo punto il live finisce e rimane poco da dire, riusciamo a reperire la setlist ma noi continuiamo a chiederci se veramente i brani previsti sono stati eseguiti.
Una grossa sorpresa risultano essere i Will Haven, che nonostante la lunga carriera riescono ancora a stupire con una performance energica e d’impatto. Oltre al materiale del nuovo EP, Open Your Mind To Discomfort , nella scaletta vengono riproposti i “classici” di Carpe Diem e El Diablo, riproposti egregiamente, grazie anche ad una presenza scenica coinvolgente e decisamente all’altezza di molti gruppi più giovani e “incensati”. La voce di Grady Avenell è monolitica e incisiva, mentre Jeff Irwin è un diavolo pazzo che violenta la propria chitarra saltellando da tutte le parti: il palco sembra non bastargli, così il chitarrista decide di salire sopra uno dei grandi monitor dell’impianto, sedersi e riprendere a suonare guardando il pubblico dall’alto.
Le ore scorrono velocemente e la mancanza di sonno inizia a farsi sentire. Arriviamo tardi per i Pig Destroyer e scopriamo che la sicurezza non fa entrare più persone, un altro piccolo problema che ci accompagnerà per tutta la durata del festival: alcune esibizioni sono state previste in spazi troppo ridotti per contenere tutte le persone interessate. Riusciamo però a rifarci con il concerto dei Nails. Il gruppo capitanato da Todd Jones è sicuramente tra i più attesi del fest: la sala è gremita di persone con toppe, maglie, felpe e merch di ogni tipo targato Nails. Una volta sul palco i californiani lasciano poco spazio alle parole, se non per qualche ironica frase ripetutamente annunciata al microfono (“this song is about people who fucking talk shit!”). Il gruppo alterna grind e midtempo senza perdere di spessore e potenza, con una tenuta di palco quasi intimidatoria, presentando una scaletta variegata contenente brani di entrambi gli album. Poca retorica per descrivere un gruppo simile dal vivo, massimo impatto e zero fronzoli.
Il primo giorno si conclude con i mostri sacri dell’hardcore americano, i Converge. I nostri regalano un live show carico e intenso e si dimostrano come sempre all’altezza delle aspettative, con una scaletta degna di nota (tutte le titletracks degli ultimi cinque dischi, vari classici e diversi brani poco suonati negli ultimi tour). La loro è una performance emotivamente coinvolgente e incisiva, resa memorabile da suoni perfetti e l’indiscutibile professionalità della band. Pienamente soddisfatti, ci rendiamo conto che la prima giornata del Temples si è conclusa nel migliore dei modi.