TEMPLES FESTIVAL DAY 2
MOTION, BRISTOL
30 / 05 / 2015
Se il venerdì è stata una giornata d’esordio aggressiva e fulminante, il sabato che ci si presenta dinanzi è un wormhole in cui precipitare a strapiombo, incuranti di oscure dissonanze e volumi massivi. La permanenza in quel Bristol continua e quasi ci sembra che l’aria sia diventata più pesante ed opprimente, specialmente se pensiamo che in serata vedremo grandi nomi quali Sunn O))), Goatsnake, Tryptykon e gli australiani Portal, davvero molto chiacchierati negli ultimi anni.
Ci fiondiamo sotto al main stage quando stanno per iniziare gli inglesi Caïna, freschi di debutto, uscito per Broken Limbs ad inizio anno. I ragazzi di Manchester sembrano inizialmente un po’ gelidi, ma tutto sembra definirsi gradualmente non appena l’occhialuto frontman comincia ad esasperare la sua dolorosa narrazione in bilico tra black metal e hardcore punk, portando alla mente gruppi come Amen Ra e Process Of Guilt. Malgrado la band risulti ancora un po’ acerba e derivativa, gli spunti offerti sono decisamente interessanti.
Nel frattempo, nello stage 2, gli australiani Impetuous Ritual augurano ai presenti un buongiorno molto rumoroso, condito di death metal tribale e sperimentale, non proprio quel che ci si aspetta alle 10 del mattino. E’ particolarmente buio e tutto ciò che i nostri occhi riescono a vedere tra fumo e luci rosse sono degli energumeni borchiati che stuprano i propri strumenti con facce truci, come veri e propri cavernicoli. Il suono è pesante e confuso, forse ci serve ancora un po’ di tempo per svegliarci e giudicare opportunamente una proposta che non ci convince. Medesimo discorso per gli inglesi Grave Miasma, che se non altro sono più comprensibili e convincenti nei suoni.
Chi scrive non aveva ancora avuto occasione di vedere dal vivo i francesi Celeste, né tanto meno pensava di vederli all’ora di pranzo in una situazione non del tutto consona al loro set. I ragazzi non sembrano infatti molto contenti di essere totalmente illuminati dalle luci da palco e dal sole che penetra dall’alto delle finestre del Motion, come effettivamente ci confermeranno loro stessi poco dopo lo show. Finalmente però la macchina del fumo occulta il palco, avvolgendo interamente i quattro ragazzi che si apprestano così a suonare gran parte dei pezzi di Animale(s) muniti delle loro immancabili torce rosse. Non è affatto buio e la nube di fumo si dirada rapidamente, nonostante ciò lo show a cui assistiamo è ineccepibile e professionale. Malgrado due dei principali effetti scenici del loro show siano compromessi e qualche problema tecnico faccia capolino sul palco, la carica emotiva è palpabile ed è ampiamente sufficiente per confermare la meritata fama di questa giovane band francese. Speriamo vivamente di rivederli presto anche in Italia.
Poco dopo nel secondo stage ha inizio lo show del duo tedesco Mantar. Sappiamo già che la band in questione è formata da chitarrista e batterista ma la cosa particolare è che la batteria viene posizionata a metà palco anzichè essere “abbandonata” in fondo e nascosta dalla nebbia. Il duo pare completamente a suo agio sul palco: lo sludge rock tinto di nero apprezzato su disco non lascia indifferenti neppure dal vivo; ci confortiamo nel sentire che il loro suono è pulito e bilanciato. La band riceve una risposta di pubblico molto positiva e, con un solo album alle spalle, dimostra di riuscire a trasmettere una discreta carica anche live. Esame superato a pieni voti, complice anche l’evidente affinità fra i due teutonici.
I Sonance giocano in casa e partecipano per la seconda volta consecutiva al rinomato festival inglese. Immaginatevi una jam session nel deserto tra Neurosis e Mogwai e arriverete abbastanza vicini a capire la proposta musicale del quintetto di Bristol. Sludge, ambient, drone e post metal si mescolano vorticosamente accompagnati da ipnotici visuals, regalando una delle migliori esibizioni della giornata, tant’è che qualcuno tra il pubblico esprime gridando il desiderio di avere i Sonance come presenza costante alle future edizioni.
Non ci eravamo mai imbattuti in uno show dei Torche; è stata dunque una piacevole sorpresa scoprirli in questa occasione. Chi scrive non è mai stato un grande fan della band ma lo show e i brani proposti dal rilassatissimo Steve Brooks e dai suoi compagni risultano essere davvero coinvolgenti, riuscendo anche a regalare un po’ di respiro nel bel mezzo di una giornata decisamente cupa in quanto a proposta musicale; un po’ come per i Clutch nell’edizione del 2014, accogliamo volentieri sonorità rallegranti e spensierate nel bel mezzo di un marasma nero di solitudine e disperazione.
La trepidazione per l’inizio del live dei Goatsnake è forte, la sala dello Stage 1 è colma fino al soppalco sul fondo; al di là dell’aura di leggende che aleggia attorno alla band americana, le opportunità di vederli live in Europa si contano sulle dita di una mano. Gli eroi di giornata partono carichissimi con la cavalcata blues di “Slipin’ the Stealth”. Il live spazia tra vecchio e nuovo materiale, con tre pezzi del loro ultimo e acclamato album Black Age Blues: tra questi spicca “Elevated Man”, che tuttavia non ha la stessa presa sul pubblico delle meno recenti “Flower of Disease” o “The Dealer”. Con semplicità ed enfasi i Goatsnake riescono a coinvolgere il pubblico trasportandolo nel loro autentico deserto sonoro fatto di blues e teschi di animali, armonica e whisky. Pete Stahl e i suoi hanno portato il calore della California nella piovosa Bristol, regalandoci uno dei live più intensi dell’intero festival.
Tra i tanti gruppi che si distinguono per celare la propria identità, i Portal sono tra i più occulti e indecifrabili, non tanto per la curiosità di sapere chi si nasconde sotto la maschera, ma per l’aura di misticismo che si è creata intorno agli australiani. Per gli amanti del genere sono una formazione da non perdere, tant’è che già venti minuti prima dall’inizio del loro live la sala è riempita fino al limite; il fumo e la nebbia non possono certo mancare. Loro si materializzano sul palco come esseri provenienti da un racconto di Lovecraft, completamente neri, nessun volto in vista, neanche un pezzo di pelle trapela dagli abiti scuri e funerei. L’inizio è imponente, quasi cacofonico: un immenso insieme di suoni quasi indecifrabili che nella loro totalità acquisiscono un senso. Progressivamente si comincia a distinguere la chitarra, poi la batteria e infine la voce, proveniente dall’inquietante personaggio senza bocca né labbra con le quali pronunciare parole, alias The Curator. Lo spettacolo è coinvolgente e catartico, il pubblico insaziabile si ciba del denso suono nero che emettono incessantemente le chitarre dei Portal, una band che fa dei propri live un’esperienza mistica e unica. Difficile rimanerne indifferenti, i Portal sconvolgono o quanto meno catturano nel loro vortice di ambiguità.
Siamo abbastanza stupiti di trovare la band di G.Warrior sul second stage e non su quello principale. I Triptykon sono ormai considerati un’istituzione da molti, specie dopo l’ultimo acclamato lavoro Melana Chasmata; a posteriori capiamo però che l’ambientazione circostante è davvero ideale. L’intima oscurità ci avvolge e con l’incedere dell’iniziale “Procreation (Of the Wicked)”ci lasciamo trasportare definitivamente sul fiume nero di Caronte. La nostra mente viene totalmente offuscata dalle pericolose nebulose doom/death portate da “Tree Of Suffocating Souls” e “Altar of Deceits”. Devastanti.
Dopo la session grind del primo giorno, i grind master Pig Destroyer si spostano sul primo palco per eseguire per intero il loro ep del 2008, per la prima volta live. Si tratta di un’occasione davvero speciale, anche perché l’album in questione è composto da un’unica traccia di 36 minuti intitolata “Natasha”, una creazione che si colloca tra doom e ambient e che fa storcere non poco il naso ai fan puristi del gruppo statunitense. Il risultato è un live infinito, con un gruppo che sembra più svogliato del pubblico, tanto che il cantante passa parte del live con la mano in tasca e l’addetto al synth, più che a pigiare tasti, si preoccupa di avere sempre una birra in mano. Forse è il batterista Adam Jarvis l’unico che sembra crederci veramente. Per un’istituzione come i Pig Destroyer, che come dicono loro stessi hanno formato il gruppo per fare il grindcore “come dovrebbe essere”, azzardare un side project doom è stato un inutile azzardo.
L’ultimo gruppo per il terzo stage è una chicca per pochi. È infatti davvero una sorpresa vedere un gruppo d-beat del calibro degli Skitsystem come headliner di un festival internazionale. L’apertura del concerto è affidata alla crudissima “Skrivet i blod, ristar I Sten”, seguita da “Apokalypsens svaria änglar”, che catapulta direttamente lo stage tre del Motion a “Stigmata”. Il pubblico non può fare a meno di alzare le mani verso gli svedesi e cantare a squarciagola i testi (anche se non si è pratici della lingua pur di cantare insieme a loro ci si inventa delle parole inesistenti). Su tutto sovrastano un po’ troppo batteria e voce, mentre si perde gran parte di quanto esce dalla chitarra; il pubblico sembra comunque non farci caso e si gode il live senza problemi.
I sacerdoti Sunn O)) non sono ancora saliti sul palco che già si distingue a stento quello che si ha di fronte. Dietro a una coltre di nebbia si stagliano monolitici decine di amplificatori pronti a danneggiarci irrimediabilmente i timpani. Le ombre incappucciate salgono sullo stage accolte dal boato del pubblico. L’apertura è affidata a una cover dei Burning Witch modificata per l’occorrenza e subito il suono si fa insostenibile anche con i tappi, investendoci e penetrandoci nelle ossa. I live dei Sunn O))) devono essere vissuti come un’esperienza ben diversa da un semplice concerto: tutto ruota attorno al contatto diretto con il riff elevato alla sua massima espressione di componente fondamentale di tutta la musica, scarnificato da tutto ciò che, secondo la band americana, risulta superfluo. Ogni volta si ha l’impressione che i due sciamani inveiscano pure troppo sulla resistenza fisica dei partecipanti: anche in questa occasione c’è chi sanguina dal naso e perde i sensi. Il rituale drone di Stephen O’Malley e Greg Anderson, iniziato con la cover di “Jubilex” dei Burning Witch, si conferma pericoloso e annichilente per la massa di pubblico, totalmente ipnotizzato dalle immancabili “Agartha” e “Hunting & Gathering (Cydonia)”. Il finale, affidato come sempre ad Attila Csihar (Mayhem) e al suo personale costume di vetri e specchi che indossa sul palco dal 2010, impreziosisce ulteriormente lo show e questa seconda incredibile giornata.