La prima volta che ne ho sentito parlare ho pensato che fosse lo scherzo di qualche buontempone, una supercazzola come se fosse antani blindata su misura per me da quegli stronzi dei miei amici. Invece no. La curiosità a metà tra l’assurdo e il surreale che quel nome aveva suscitato in me s’è presto sopita una volta visto il video di “Grindstone” in heavy rotation su youtube: scherzo o non scherzo, il progetto m’era parso a dir poco geniale, già a partire dal nome, Ottone Pesante.
Con un monicker che è un perfetto sfottò all’immaginario e universo del metallaro medio troppo spesso inconsapevole dei cliché che incarna, e un ovvio riferimento al materiale dal quale il loro sound si forgia, il trio seppellisce con una risata (o forse sarebbe meglio dire ‘con un pernacchio’) eoni di machismo e serietà imperturbabile sintetizzati in pantaloni di pelle e croci rovesciate. Scelta artistica e anche vagamente concettuale la loro, intendiamoci: l’ottone rimanda ad un materiale che mai potrà eguagliare il metallo allo stato puro per proprietà intrinseche, ma che in quanto lega unisce piuttosto alcuni tratti stilistici a materie ben diverse e rinvigorenti, come ad esempio l’ironia e (mi pare) l’autoironia, autentiche sostitute di rame e zinco. Dopotutto, metallo o non metallo, chi se ne fotte? E poi, oltre al fumo c’è anche l’arrosto? Sì. Gli Ottone Pesante non solo hanno azzeccato un concetto e l’immaginario che ne segue, ma si sono rivelati anche ottone pensante, e grazie al cielo: si sono costruiti una realtà unica a suon di tecnica e gusto personale, poche parole e soprattutto col sudore (e il fiato trasformato in condensa) sgocciolato sui palchi di mezza Italia che come loro nessuno mai. Il trio ci ha posto dalla sua comparsa due anni fa davanti ad un bivio: amore o odio per quello che è, per quel suono che può sembrare parodistico ad alcuni e macchinoso ad altri, che a qualcun altro farà pensare all’orchestrina di un Goran Bregovich ispirato che coverizza gli Slayer più incazzati, a ciascuno il suo.
Ma veniamo a questo nuovo disco intitolato Brassphemy Set In Stone (per quanto prevedibile) che fa il paio col concetto del monicker stesso, in una scherzosa rievocazione del male, della legge divina scolpita nel marmo e di chissà cos’altro. Dopo due buoni apripista settati su pattern ritmici che strizzano l’occhio al thrash metal e farciti quindi di un tupa-tupa forsennato ed essenziale (“Brutal” e “Nights Blood”), per non dire ultraveloce e blastato (vedi “Bone Crushing”), ecco che gli Ottoni rincarano la dose virando su quel che a mio parere riesce loro al meglio: “Torture Machine Tool” e soprattutto “Trombstone” sono midtempo armonizzati in cui compare la loopstation a dar loro manforte per creare atmosfere plumbee da marcia funebre fanfarizzata mediante forgia e incudine. “Copper SulpHate” riporta invece la velocità di crociera sull’urgenza e la tega del grind: ottimo groove e riff cesellati che imitano (riuscendoci) il suono di due chitarre elettriche. “Pig Iron” stende un tappeto di doppio pedale su cui fanno merenda tromba e trombone con una certa calma rispetto alle precedenti. “Melodic Death Mass” invece, tra due break di batteria come li avrebbe suonati Pete Sandoval periodo Domination e un tema melodico di scuola swedish death metal, infila un mezzo anthem da stadio al minuto 1’45’’ prima di cedere il passo alla cavalcata di “Redsmith Veins” che ad un certo punto prende una piega da colonna sonora di poliziottesco, una specie di funk metal cazzuto che sfocia in un muro di doppio pedale perentorio con i fiati che mimano un palm-muting scatenato ‘à la’ Hanneman (r.i.p.). Chiude una buona “Apocalips” che in mezzo a metallarate assortite lascia spuntare degli allunghi di tromba dilatati su uno spezzato meshugghiano a smorzare il tiro per poi riprendere a menare.
Forse ci si aspettava qualche follia di più rispetto all’ep d’esordio (dissonanze? sfuriate schizoidi proto-Naked City?) o più semplicemente qualche virata lontano dai cliché del metal tout-court (per quanto la proposta sia già parecchio originale), ma Brassphemy (perché quel ‘Set In Stone’?) resta pur sempre un’opera prima sulla lunga distanza ed encomiabile di per sé per il suo coraggio artistico. Visti su un palco grosso nella luce e col caldo di un pomeriggio del luglio milanese (in apertura ai Napalm Death), i tre ragazzi non hanno avuto pecche se non il trovarsi loro malgrado in un ambiente estremamente dispersivo, che a parere di chi scrive men che mai giova alla resa ottimale della loro musica. Sì, perché complici le spropositate capacità polmonari di Francesco Bucci e Paolo Raineri che mi hanno provocato un embolo immaginario solo a pensare alla quantità di millibar emessi in poco più di venti minuti di scaletta, e degli arti-frullatori di Beppe Mondini, il trio ha dimostrato di sapere tenere il palco che è una meraviglia e di sfornare una gragnuola di pezzi che, a livello ritmico e armonico, pochi veri metallari saprebbero concepire e reggere. Certo, tromba e trombone non sono delle B.C. Rich, che cazzo credevate?, armonizzano solo in coppia o se ‘looppate’, e soprattutto non possono sfornare arpeggi o power-chords in drop-A, ma credo stia proprio qui l’anima della sfida dei Nostri: suonare ‘partiture’ tendenzialmente riconducibili al metal con strumenti inusuali, e credeteci, anche se non le si colgono al primo ascolto, arrivano e ti si inchiodano nel cervello. Ma poi, avrete mica storto il naso di fronte alle tastierine giocattolose dei Locust la prima volta che li avete ascoltati? O pensavate che Zorn fosse cresciuto ascoltando solo Coltrane? Bravi fessi. In un paese in cerca di cambiamento e in costante stato di lamentela rispetto a tutto, eccovi almeno un buono spunto per scrollarvi di dosso la cappa nera da purista del metal e tutti i preconcetti idioti che vi si nascondono sotto, e andare finalmente oltre alle solite cose.
(B.R.ASS, SoloMacello, ToomiLabs, 2016)
01. Brutal
02. Nights Blood
03. Bone Crushing
04. Torture Machine Tool
05. Trombstone
06. Copper SulpHate
07. Pig Iron
08. Melodic Death Mass
09. Redsmith Veins
10. Apocalips