Roots gettò le basi. E che basi.
Aura fu, in brevissimo, stupefacente. E come si può non approcciarsi ad un ennesimo paesaggio, un’ennesima fotografia delle highlands scozzesi senza bava alla bocca? L’hype è alto, dopo ciò che fu disco dell’anno per molti. I Saor avranno bissato? Vedremo.
Se si vuole continuare sul discorso immagine/immagini, colpisce sin da subito l’artwork: i colori vividi del paesaggio, sebbene ugualmente maestoso, danno fin dall’inizio un’impressione diversa. Il turchese del cielo è in sé un’anticipazione, sia della maggiore serenità nel carattere del disco sia e soprattutto di quel rinnovato sentimento di trionfo condiviso dal “commilitone” e collaboratore Panopticon, che in Aura e Roots aveva impresso il proprio carattere attraverso un drumming sopraffino; altro cambiamento di Guardians. Come era ovvio aspettarsi, l’LP è pregno di quella ricerca emozionale che caratterizza da sempre i lavori di Andy Marshall da quel che fu Falloch. Ritornano gli strumenti tradizionali, quel flauto strappalacrime che aveva colpito nel segno in Aura e la voce orgogliosa di Marshall a farsi tutt’uno in climax dopo climax per i cinque pezzi che compongono il platter. Da segnalare ancora l’assestarsi del mix su frequenze medio-alte a scapito dei bassi, come da tradizione di genere, così come la presenza del session-drummer Bryan Hamilton, dallo stile nettamente differente, più secco e conciso del, c’è da dirlo, compianto Austin Lunn.
Ed è proprio con il già citato Panopticon, e nello specifico con il suo ultimo lavoro Autumn Eternal, che viene naturale istituire un parallelismo: com’esso, anche Guardians perde parte della pesantezza dei predecessori, si assesta su binari più “sicuri”, chiari, rendendosi più accessibile e meno orgoglioso nella presentazione. Ed è così che violino, flauti e sezioni sinfoniche (quasi) à la Summoning vengono a sovrastare i passaggi più puramente black metal in stile Fen, sempre più rarefatti dopo il debut sotto il moniker Arsàidh; ne risulta una “diluizione” sul campo di quei passaggi, quelle perle che avevano mandato in visibilio i numerosi ascoltatori di Aura. Giudicare quanto ciò sia giustificabile o meno sta all’ascoltatore, certo è che Guardians ad una minore memorabilità delle sezioni accompagna maggiore uniformità nei suoni, nel mood, nell’espressione. Scelta, ci sentiamo di dire, senza dubbio voluta.
Chiudiamo col dire questo: se Roots era acerbo ed imponente, Aura maestoso ed imprescindibile, Guardians non è certo un capolavoro, ma un disco ottimo, accessibile, fluido.
(Northern Silence Productions, 2016)
1. Guardians
2. The Declaration
3. Autumn Rain
4. Hearth
5. Tears of a Nation