Il laudano è un composto di oppio ed alcol, elaborato per la prima volta dal celebre alchimista Paracelso nel XVI secolo ed ampiamente utilizzato, per almeno tre secoli, come farmaco analgesico, sedativo e – chi l’avrebbe mai detto! – droga, non di rado da soldati e marinai per alleviarne sforzi e sofferenze. È a questa sostanza che si sono ispirati gli Ashenspire, quartetto scozzese che ha deciso di intitolare il proprio album di debutto Speak Not of the Laudanum Quandary.
Questa breve premessa storico-narrativa si rende necessaria dato che, con tutta evidenza, permea fortemente l’intero disco: gli Ashenspire propongono una sorta di black progressivo, con rimandi a sonorità jazz e folk, con il preciso scopo di restituire l’atmosfera plumbea della tarda età vittoriana, raccontando – parole della band – un’«odissea umana attraverso le assurdità e le tragedie dell’imperialismo britannico». Una forte peculiarità si trova nella stentorea teatralità delle vocals del cantante/batterista Alasdair Dunn (definito un po’ pomposamente, sulla pagina Bandcamp dei nostri, nientemeno che «direttore creativo»): uno stile vocale denominato sprechgesang, un mix tra canto e parlato in voga all’inizio del XX secolo. Non paghi di aver già così sufficientemente sorpreso gli ascoltatori, gli scozzesi usano con abbondanza pianoforte e violino, che in qualche pezzo conducono letteralmente le danze (“Grievous Bodily Harmonies”). La combinazione di tutti questi elementi porta a picchi emotivi notevoli (sentite “The Wretched Mills”, ad esempio), facendo scorrere senza noia i cinquantanove minuti del disco e senza far pesare la durata dei singoli pezzi, mai al di sotto dei sette minuti (con l’eccezione dell’intermezzo “A Beggar’s Belief”).
La band raggiunge alla fine il risultato voluto: ascoltando Speak Not of the Laudanum Quandary pare davvero di essere catapultati nella Londra di fine ‘800, tra smog, prostitute, alcol ed oppiacei a profusione, bambini cenciosi per strada e violenza domestica, il tutto nascosto sotto il tappeto del tipico perbenismo dell’epoca. Non si tratta, volutamente, di un disco per tutti, né tantomeno che segue alcun trend musicale: è piuttosto un’opera personalissima, che esprime la grande personalità di una band completamente libera da qualunque preoccupazione “commerciale”, oltre che abilità tecniche e – soprattutto – compositive non comuni. Da seguire e supportare.
(Code666 Records, 2017)
1. Restless Giants
2. The Wretched Mills
3. Mariners at Perdition’s Lighthouse
4. Grievous Bodily Harmonies
5. A Beggar’s Belief
6. Fever Sheds
7. Speak Not of the Laudanum Quandary