Uno dei ritorni più attesi dell’anno, specie dopo l’orribile estate che finalmente ci siamo lasciati alle spalle, è sicuramente quello dei Wolves In The Throne Room, giunti al sesto full-length della loro quindicennale carriera: nulla di meglio delle atmosfere glaciali dipinte dai fratelli Weaver (ora accompagnati in pianta stabile da Kody Keyworth, che dopo una vita da mediano – leggasi turnista – è entrato a tutti gli effetti a far parte della band) per godersi l’incipiente autunno.
Thrice Woven vede i Lupi tornare ad essere una band pienamente black metal, ovviamente declinato secondo le loro tipiche desinenze musicali, con una svolta marcata rispetto alle due precedenti uscite. “Born From the Serpent’s Eyes” mette subito le cose in chiaro: i primi quattro minuti sono di furibondo black vecchio stampo, che si interrompe per lasciar spazio ad una non inconsueta (per la band) voce femminile e quindi ad una prolungata fase ‘atmosferica‘ che si protrae fino alla conclusione del pezzo. C’è già qui tutta l’identità musicale della band, di cui questo pezzo può essere il simbolo-manifesto a questo punto della carriera. “The Old Ones Are With Us” vede il contributo di Steve Von Till, che declama versi poetici che omaggiano – come da tradizione dei Weavers – la natura e il succedersi della stagioni, incaricandosi pure degli inserti di chitarra acustica. “Angrboda” parte rabbiosa, in linea con il soggetto che dà il titolo alla canzone (la gigantessa della mitologia norrena che procrea il lupo Fenrir, destinato a distruggere il mondo), salvo ancora una volta arrestarsi per lasciar spazio ad un synth dal sapore burzumiano e quindi ad un finale basato su chitarre solide, ma decisamente più dilatato. Il puro cascadian black metal, trademark della band, lo ritroviamo nella conclusiva “Fires Roar in the Palace of the Moon”, che si apre con un riff maestoso e prosegue col piede sull’acceleratore per i successivi quattro minuti, salvo diluirsi in un’atmosfera eterea che, stavolta, fa un po’ perdere il filo.
Thrice Woven segna dunque il ritorno dei Lupi alle sonorità che più gli appartengono, mettendo da parte la deriva shoegaze/darkwave presente su Celestial Lineage e, ovviamente, le sperimentazioni ambient di Celestite. L’unico vero ‘difetto’ del disco – insieme ad una produzione lo-fi che nel 2017 ci pare limitante e francamente incomprensibile – sta proprio nell’aderenza a coordinate stilistiche che mostrano inevitabilmente dei limiti oltre ai pregi, in particolare dopo un decennio abbondante di ripetizioni ed imitazioni ad opera dei tanti emuli del duo (prendiamo come punto di riferimento Diadem of 12 Stars, datato 2006). I Wolves sono indubbiamente dei maestri, degli apripista: ormai superati, però, da alcuni allievi (già alcuni anni fa, per fare un esempio, dai compianti Altar Of Plagues), che non li scacceranno mai dalla sala del trono, ma potranno forse limitarne l’effettivo potere, rendendolo più nominale che effettivo.
(Artemisia Records, 2017)
1. Born from the Serpent’s Eyes
2. The Old Ones Are With Us
3. Angrboda
4. Mother Owl, Father Ocean
5. Fires Roar in the Palace of the Moon