Quattro album in undici anni. Non è la prolificità la principale caratteristica dei Process Of Guilt, che hanno fatto attendere ben cinque anni per dare alla luce il successore dello splendido Fæmin: Black Earth ne prosegue l’intento stilistico, purtroppo – lo diciamo subito – non con la stessa efficacia. Sviluppando le proprie radici doom e death, molto forti nei primi due dischi, i portoghesi si sono infatti diretti verso territori più “post” e industrial, abbandonando in parte la profonda emotività degli esordi per una più spoglia brutalità. Il mutamento è strutturale: prevale ora il lato ritmico delle canzoni, e non più quello melodico. In questo senso, Fæmin era un disco di svolta, mentre questo consolida il percorso intrapreso allora.
Si entra subito in medias res con “(No) Shelter”, che vomita sull’ascoltatore una massa nera di rabbia e disperazione, come da tradizione della band. È il basso a farla da padrone, pulsando su una ritmica peculiare. È invece una chitarra satura ad aprire “Feral Ground”, anch’essa però costruita su ritmiche non lineari, mentre è più intensa la successiva “Servant”, che nel finale si concede una slabbrata digressione quasi noise. Punta decisamente a stordire la title-track, ben dodici minuti dei quali i primi cinque prigionieri di una linea ritmica tribale ma assolutamente statica. Una lunga – ma ripetitiva – digressione centrale precede un finale di canzone neurosisiano, ma davvero eccessivamente rarefatto. “Hoax” poggia sul solito basso, molto presente, e chitarre impegnate inizialmente in un riff in tremolo; quindi il pezzo torna su atmosfere più doom-death, simili ai dischi precedenti, ma senza la stessa pesantezza e profondità. A ciò contribuiscono anche le vocals di Hugo Santos, che ha in generale abbandonato il growl delle precedenti release per uno stile più secco ed urlato.
Sia chiaro: i Process Of Guilt non devono dimostrare nulla. Dopo tre ottimi album (senza dimenticare gli split con Rorcal e Caïna, due perle nere), la band lusitana può permettersi di sperimentare evoluzioni distanti dallo stile che conosciamo. Benché la volontà di non ripetersi vada sempre elogiata, non ci sembra però che la direzione intrapresa sia risultata feconda; allo stesso tempo è difficile pensare a Black Earth come ad un disco di transizione, che non avrebbe richiesto ben cinque anni per essere pubblicato. Da parte nostra, prendiamo atto del nuovo stile della band e ci auguriamo che in futuro sappia produrre materiale più convincente.
(Bleak Recordings, 2017)
1. (No) Shelter
2. Feral Ground
3. Servant
4. Black Earth
5. Hoax