Quello dello sludge metal è un calderone in ebollizione da tempo, e sovente riserva delle ottime sorprese per l’ascoltatore attento ed interessato ad una scena, soprattutto underground, rigogliosa. È questo il caso di Himalayan Demons dei nostrani The Red Coil, full length uscito lo scorso 22 giugno per Argonauta Records, etichetta italiana di riferimento per il genere che continua ad arricchire la sua line-up inserendo questo lavoro tra nomi di assoluta rilevanza quali Komatsu, Rancho Bizzarro e Rhino.
Le tinte di questo terzo lavoro della band milanese sono a cavallo tra lo sludge travolgente che ricorda gli americani Weedeater ed Eyehategod e lo stoner metal di Corrosion of Conformity e Down. Riguardo l’assonanza con i Down va spesa una nota di merito per l’ottima performance del vocalist Marco Marinoni che fa della sua voce un ponte di collegamento tra l’evidente Anselmo dei Down e, con gradita sorpresa, quello dei Pantera, interpretandolo in modo originale, facendo onore alla potenza del maestro della fry voice, nonché rispecchiando la sua versatilità, ricordandone i puliti melodici ed i sussurri, in particolare nella traccia “The Shroud”. L’intreccio delle tracce vocali in “The Oriental Lodge” e l’accenno alla diplofonia mongola in “Moksha” confermano la padronanza dimostrata da Marco.
L’album si presenta come un lavoro maturo, consapevole delle potenzialità della band e piacevolmente variegato, sorprendendo con dinamiche violente che sfociano, da un momento all’altro, in parti psichedeliche o in blues così caldi e di stampo così americano che vi faranno desiderare di essere in canottiera sulla vostra sedia a dondolo a sorseggiare il miglior whiskey da vasca da bagno del Mississippi. La componente groove è presente per tutto il disco, nonché pilastro fondante dei brani, accostata sia a parti di chugging imperturbabile che a segmenti melodici e cantabili. Le atmosfere tra moderno sludge e sentori di riffing e strutture tipicamente sabbathiane della quarta traccia “Opium Smokers Room” fanno da passaggio per un disco che non conosce momenti di crisi a favore di un’attitudine dirompente che coinvolge costantemente e fin dal primo ascolto. La parte strumentale, ricca di fuzz e distorsioni di qualità, risulta solida, interessante e senza mezzi termini sbatte in faccia all’ascoltatore una tonnellata di groove implacabile. Le frasi della chitarra solista e gli assoli tributano giustamente l’heavy metal ottantiano. La batteria è per tutta la durata del lavoro impeccabile, mostrando disinvoltura sia nelle raffiche serrate che negli intermezzi blues o psichedelici.
Volendo suggerire un miglioramento per i lavori futuri è da esaminare e migliorare il suono del basso, caratterizzato, nella maggior parte dei casi, da un timbro che risulta troppo nasale nel mix di furia strumentale e vocale. Il lavoro svolto dal bassista Gelindo è comunque encomiabile date le solide linee e le frasi mai banali. La produzione è di estrema qualità, dal mix intellegibile e colorato al potente master in your face. L’idea di groove coinvolgente, riffing serrato, atmosfere southern e voce viscerale è esposta ampiamente e riproposta fedelmente per tutta la durata dell’album, mantenendo alto il tono in tutti i brani, facendo aggiudicare ai The Red Coil ed Argonauta Records un disco di assoluta qualità che motiverà ad ascoltare o riascoltare gli altri due precedenti lavori degli sludgers milanesi. Traccia preferita: “The Shroud”.
(Argonauta Records, 2018)
1. Withdrawal Syndrome Wall
2. Godforsaken
3. Oriental Lodge
4. Opium Smokers Room
5. The Shroud
6. Moksha
7. The Eyes Of Kathmandu
8. When The Levee Breaks