MARTINO RAZZA
Assolvendo all’onere ed all’onore di poter stilare una classifica dei migliori dischi del decennio 2010 – 2019 vanno fatte alcune premesse, assecondando un dovere informativo che vuole risultare nell’aver accompagnato i propri lettori quanto più correttamente e piacevolmente nella fruizione di questo articolo, così come di quelli già editi o che successivamente verranno elaborati.
Se la recensione (o live report o articolo di giornalismo musicale in genere) prevede, inevitabilmente, in certa misura, una componente soggettiva del redattore, la sottostante enunciazione dei migliori dischi del decennio, avendo ovviamente essa allargato a dismisura il campo in esame, prevede una componente soggettiva ancora più fortemente determinante, facendo entrare in lista solamente i dieci dischi che obiettivamente potrebbero o non potrebbero essere meritevoli di tale selezione, ma che soggettivamente rispecchiano i momenti di più alta fruizione musicale personale del redattore in questione.
Tale prefazione non vuole essere un disclaimer, piuttosto si prefigge come un breve prontuario per la fruizione delle numerose top ten/liste dei migliori dischi del decennio che ultimamente affollano lo spazio virtuale e non solo, e proprio a fronte di tale abbondanza e varietà, l’ultima linea guida che bisogna esporre è la seguente: la consultazione di tali articoli scritti da diverse penne è assolutamente consigliabile, specialmente nel caso si voglia impostare una ricerca che parta dall’opinione dei propri redattori preferiti e che verta verso un quadro generale che, di articolo in articolo, acquista sempre più un valore oggettivo.
Yob – Clearing the Path to Ascend (Neurot Recordings, 2014)
La manovra spontaneamente operata nel corso degli anni dagli Yob riguardo la propria interpretazione del genere doom/sludge metal è tra le più brillanti a cui si sia potuto assistere, almeno nel corrente decennio. La band dell’Oregon, lontana comunque da sperimentalismi estremi e/o forzati, ha saputo inserire con maestria elementi ambient e di intensa psichedelia, insieme ad un carattere sonico peculiare, facendolo così bene da rappresentare un caso unico, che prende una direzione totalmente personale, confermando quanto affermato finora appunto con il suo settimo full length Clearing the Path to Ascend, rappresentando esso l’apice di un’ascesa progressiva ed inesorabile verso il tipo di espressione rappresentata da questo disco, dunque differenziandolo molto da, soprattutto, le prime release della band ed avendo esso dischiuso la strada per il successivo, incredibile, Our Raw Heart. Clearing the Path to Ascend vira verso un espressione estremamente più introspettiva, intima e meditativa ma al contempo dirompente, in cui coesistono sezioni ispirate dal miglior doom ed altre di originalissimo ed ascetico ambient/psychedelic rock, i cui risvolti malinconici e meditabondi vengono narrati da vocals melodiche (interpretate magistralmente con diverse tecniche) di rara intensità, esibendo oltretutto un riffwriting dinamico che non lesina sezioni grandiosamente dilatate, rendendo questo penultimo opus della band un percorso che si addentra nell’io più profondo dell’ascoltatore e che vuole elevare lo stesso al di sopra di un mondo materiale che ha sempre più bisogno di dischi con cui scrutarsi dentro come Clearing the Path to Ascend.
Mgła – Exercises in Futility (Northern Heritage Records, 2015)
Meritovole di entrare non solo nella selezione dei migliori dischi della decade 2010 – 2019, ma anche nell’élite dei migliori opus dell’intero black metal dai suoi albori ad oggi. Exercises in Futility non solo rappresenta l’assunzione della band polacca all’interno dell’olimpo del black metal, ma rappresenta per il suddetto panorama un punto di svolta di importanza storica nonché una rivoluzione contenutistica, segnando dunque, come tradizionalmente e ciclicamente avviene in questo segmento musicale, l’inizio di una nuova “ondata”, che ha di conseguenza confermato anche i prodotti (sia della stessa band polacca che di poche altre band) antecedenti al 2015 che si sono attenuti ai dettami poi saldamente esposti nel manifesto rappresentato da Exercises in Futility. Esso è il black metal moderno, quello che omaggia il passato ma che allo stesso modo calca con audacia una via intrapresa autonomamente, spogliandosi di quanti più fronzoli possibili, accumulati nel corso degli anni e che nel 2015 iniziavano a risultare fuori dal loro tempo. Il nuovo corso qui è dunque stabilito da un minimalismo nichilista, che non porta sulle sue spalle il peso di una dannazione infernale ma che piuttosto diviene ascesi, introspezione, consapevolezza e liberazione, servendosi di un riffing più armonioso rispetto al passato (ma comunque non melodico), atmosfere malinconiche e di una concretezza disarmante che hanno reso i Mgła, specialmente da Exercises in Futility in poi, un fenomeno autorevolissimo di cui non si può non prendere atto.
Bölzer – Hero (Iron Bonehead Productions, 2016)
Nel suo minimalismo principalmente composto da vocals, chitarra e batteria (e sostenuto da notevoli sezioni ambient, sample e sound fx), il duo svizzero Bölzer è riuscito a trovare la propria dimensione e la propria forma, caratterizzandosi di un aspetto stilistico unico e di raro coinvolgimento emotivo, oltretutto non commettendo un passo falso dalla prima demo del 2012. La band elvetica è alfiere di un atmospheric black/death metal moderno e di interpretazione assolutamente personale, che nel primo (e ad oggi unico) full length Hero trova un punto di svolta fondamentale, data la sua rinnovata teatralità ed intima espressione, elementi che costituiscono le fondamenta sia del disco che dell’intera discografia dei Bölzer. Così come lo è il riff writing polivalente che non solo non fa sentire la mancanza di altri strumenti melodici al di fuori della chitarra, che se affiancata ad un altra configurazione di band perderebbe la sua natura unica, ma esibendo anche una cura armonica alle soglie del pianistico, unita ai migliori stilemi del black/death metal, come vocals distorte punitive e perseguitanti, seguite dualmente da vocals clean ora eteree e primordiali, ora teatrali ed epiche come poche altre, coinvolgendo l’ascoltatore in un percorso dall’ampia palette espressiva, tra l’assurdo, il furibondo e l’ascetico, rappresentando l’opera omnia dei Bölzer, nonché una produzione artistica avanti nei tempi. Non ci si dovrebbe stupire se negli anni a venire facesse da precursore ad innumerevoli future iterazioni da parte di nuove band e progetti musicali.
Mizmor – Yodh (Gilead Media, 2016)
Il secondo full length (preceduto anche da diversi ottimi EP e split, poi succeduto dal monumentale Cairn) di Mizmor (מזמור) conferma quanto la one-man band di Portland sia il nuovo autentico volto del black doom metal moderno che, appresa la lezione dalle diverse ondate storiche di black metal, taglia i ponti con esso per poter procedere sulla sua strada personale, che porta ancora più in fondo all’abisso impenetrabile precedentemente dischiuso, per il quale Yodh rappresenta un climax. A.L.N. (Liam Neighbor) è visionario polistrumentista che ha incarnato, ad oggi, nella maniera più notevole il concetto di black/doom (o specificatamente “Wholly Doomed Black Metal”), grazie a vocals spiritate che gelano il sangue (dal growl al “nazgul scream”), rappresentanti una sound signature immediatamente riconoscibile di Mizmor, sostenute da dilatati riff ispirati dal migliore funeral doom metal, trascinanti l’ascolto in un baratro in cui si piegano le stesse concezioni di spazio e tempo, accostate dualmente da evocative sezioni di blast beat e tremolo picking di furioso black metal, distillato e privo di orpelli come vuole il gusto moderno del genere, spingendosi anche verso l’esperienza sonica, con segmenti di psicotropo droning, da cui spicca ulteriormente una cura dei suoni importantissima (supportata in questo caso da un comparto tecnico di altissimo livello). Il progetto trae da ogni genere i lati più oscuri ed obnubilati, mescendo un veleno purissimo che da un lato annienta e dall’altro libera, esibendo oltretutto un riffwriting ispirato e eclettico, che va dal dissonante e slegato da una stretta concezione di pulsazione ritmica, al cantabile e malinconico. Questi sono gli elementi di pregio assoluto tenuti insieme da un arrangiamento che ha l’aspetto di un percorso interiore e che, insieme al resto dei valori sopraelencati, rendono Yodh un opus imprescindibile per Mizmor e per gli attuali termini di paragone del black/doom metal.
Amenra – Mass VI (Neurot Recordings, 2017)
Il concept di Mass dei belgi Amenra prende forma fin dall’esordio discografico della band, sviluppandosi nell’arco di quattordici anni, arrivando quindi nel 2017 alla sua sesta iterazione. La band si presenta a questa prova sensibilmente maturata, mantenendo la propria integrità autentica, tenuta insieme dal medesimo fil rouge dell’approccio pseudo-liturgico/rituale, puntualmente poi risultante nella fiamma di vera creazione e pura espressione attizzata nel focolare perpetuamente ardente del collettivo Church of Ra. Gli Amenra, tramite un continuo confronto e stimolo artistico, hanno assemblato la propria caratteristica commistione di generi che unisce post-doom metal ed hardcore, diventando dunque (specialmente con ogni iterazione di Mass), un vademecum del post-metal moderno, minimale e divincolato da qualsiasi limite espressivo, che da una parte rappresenta l’urlo di uno sfogo liberatorio e dall’altra diviene lancia di un dolore/pathos che trafigge il petto, le cui atmosfere, magnificate nella sua forma più sublime in Mass VI, diventano motivo di profonda introspezione, marcata da momenti di impenetrabile e confortante malinconia, affiancata da apici di furia redentrice, che stilisticamente scaturisce da un riffing ipnotico, rituale e trascinante, rappresentante le marmoree fondamenta di lead melodiche struggenti e cantabili, parallelamente ad una voce bivalente di ispirazione hardcore, ora condanna ora conforto, unendo ognuno di questi elementi in un songwriting di ampio spettro emotivo e profondamente dinamico, prefiggendo senza dubbio gli Amenra ed i loro Mass come fenomeno imprescindibile del metal moderno e del post-metal dell’ultima decade.
Bell Witch – Mirror Reaper (Profund Lore Records, 2017)
Quello del duo americano Bell Witch è un caso unico, che per contenuti e significati attinge a piene mani dal meglio del panorama doom e lo rielabora brillantemente in maniera personale, mescendo diversi stilemi in una forma assolutamente singolare di cui ne svetta il minimalismo, risultando in un funeral doom/drone metal costituito dagli unici elementi principali rappresentati da basso a sei corde, vocals e batteria, talvolta affiancati a sample, hammond ed elettronica. L’approccio dei Bell Witch, in particolare nel loro ultimo full length Mirror Reaper (costituito da un’unica monumentale traccia di 01:23:15), prende d’esempio principalmente il primigenio funeral doom e lo sviluppa spontaneamente, in un’iterazione unica, spogliandosi della base fondante direttamente derivata dal death metal (fondamenta comunque unicamente riscontrabili nello stile delle vocals, seppur notevolmente reinterpretato) da cui sorge il funeral e, preservandone comunque la vera essenza, lo veste di un carattere melodico, talvolta cantabile ed epico, che colloca Mirror Reaper in un segmento a sé stanteancora inesplorato se non dallo stesso duo di Seattle. L’arrangiamento è etereo, ascetico ed immerge in un costante flusso di coscienza e consapevolezza già le prime sezioni dell’album, complice anche un basso eseguito in maniera strettamente personale a metà tra il pianistico ed il chitarristico. Facendo converge in un unica definizione tutti i sopracitati elementi appartenenti all’ultimo full length dei Bell Witch, lo si può raffigurare come un monolite inamovibile che splende di una luce autonomamente generata, illuminante un sentiero inesplorato, stagliante immense ombre nell’io dell’ascoltatore, ma concedendo momenti di luminosa grazia eterea. Tale monumento musicale è oltretutto accompagnato da uno degli artwork più stupefacenti e notevoli degli ultimi anni, a cura di Mariusz Lewandowski.
Primitive Man – Caustic (Relapse Records, 2017)
Non ci si stupisce più di chi identifica il trio death/sludge/noise metal di Denver come la band “più pesante” che esista, e questa affermazione, per quanto sia sempre espressa a ragion veduta, può oggettivamente essere o non essere corretta. Il termine “pesante” non descrive nulla di oggettivamente significativo in relazione alla musica, in quanto esso risulta assolutamente ambiguo e di interpretazione puramente personale, dunque da subordinare in favore di una descrizione più accurata, significativa e concreta. Caustic è l’album più rappresentativo della band, che qui ha riportato i suoi tratti emblematici, come un riffing abrasivo e trucemente dissonante, pattern simultaneamente marziali e selvaggi, nonché oltraggiosamente punitivi, facendo dunque risultare ogni elemento compositivo/espressivo in un ulteriore masso che costituisce il tumulo impenetrabile rappresentante l’intera esperienza sonica proposta dal trio del Colorado. Bisogna comunque ricordare che il frangente musicale di cui la band rappresenta la punta di diamante è un baratro senza fondo, e non stupirebbe che a condurci ancora più in basso all’interno di esso continui ad essere lo stesso trio di Denver.
Author & Punisher – Beastland (Relapse Records, 2018)
Addentrandosi nel cuore della produzione elettronica unita all’intenzione metal e della contaminazione totale è assodato trovare dei prodotti musicali assolutamente eclatanti, tra cui Beastland del californiano Author & Punisher, settimo full length realizzato dalla one-man band di Tristan Shone, che ha unito l’approccio dell’ingegneria meccanica alla produzione musicale estrema divincolata dai limiti di catalogazione. L’ibrido tra NIN, Nailbomb e Godflesh, nella forma di un industrial/noise/drone/doom metal trascinante e di raro livello comunicativo, è realizzato principalmente con macchine musicali di precisione, come le caratteristiche Drone Machines realizzate dallo stesso Tristan Shone, atte a seguire i movimenti fisici (e vocali) dell’artista, risultando in una simbiosi artista-macchina di indiscutibile pathos. Beastland si pone come compendio della produzione dell’artista di San Diego, diventandone la sua punta di diamante, con sezioni vocali sia strazianti che eteree, suoni elettronici ossessivi, ostinati ed annichilenti, a sostegno di noise e melodie sintetiche alienanti e distopiche, rendendo l’opus di Author & Punisher una delle vette espressive sperimentali più alte, almeno, dell’ultimo decennio.
Wiegedood – De doden hebben het goed III (Century Media Records, 2018)
Come una certa tendenza suggerita riguardo i titoli degli elaborati discografici all’interno di Church of Ra, anche il trio belga (Ghent) Wiegedood, facenti appunto parte del sopracitato collettivo, ha voluto dare ai propri full length un titolo univoco reiterato in capitoli. Nel 2018 la saga trova la sua terza incarnazione, facente per la terza volta, uno su tutti, da tedoforo rappresentante la fiamma perpetua dell’intero panorama atmospheric black metal avendo conformato e magnificato i termini fondamentali del suddetto genere, fregiandosi oltretutto del merito di averli espressi nella maniera più minimale possibile ma, in accostamento ossimorico, avendo conferito ad essi una ragione ed un contenuto ancora più rilevante rispetto a prodotti più elaborati. Con gli esclusivi quattro elementi fondanti rappresentati da due chitarre, vocals e batteria sdoganano una formazione non convenzionale ma che, anche in questa istanza, dimostra di non aver perso di valore spogliandosi di quanti più elementi possibili, piuttosto acquisendone di nuovi e stimolanti, grazie anche ad un riff writing gelido e straziante, incasellato da un arrangiamento tanto istintivo e minimale, quanto estremamente curato e realmente moderno, in cui vivono oltretutto intere sezioni di chitarra clean e/o elementi atmosferici che in De doden hebben het goed III fanno piovere dentro l’ascoltatore come da un interiore cielo invernale fitto di nubi, rendendo il suddetto opus un elemento fondamentale del decennio 2010 – 2019, specialmente in termini di progresso espressivo all’interno del suo genere peculiare.
Sunn O))) – Life Metal (Southern Lord Records, 2019)
Le radici del progetto statunitense/internazionale Sunn O))) affondano nella sperimentazione drone/tessiturale priva di compromessi, oltre che nella musica d’avanguardia preesistente (ricordando la presenza della sperimentazione spettralista/tessiturale e del movimento modernista fin dagli anni ’40), fregiandosi, in primo luogo, del merito di aver sviluppato e contestualizzato la suddetta sperimentazione avanguardista nella propria personale interpretazione di massimalismo e minimalismo, che ha assunto dunque una forma costituita da colossali contrasti tra luci ed ombre, nonché da un’esperienza tellurica di inesorabile movimento e trasfigurazione, vestita dell’intenzione (drone) metal di cui il progetto Sunn O))), specialmente oggi, rappresenta un elemento fondamentale, avendo prodotto una discografia eminente che ha saputo innovarsi di volta in volta. E se il catalogo dell’ultimo decennio del suddetto progetto statunitense prevede più di 120 release (4 full length, alcune collaborazioni, demo e split ed un numero straordinario di live album) l’opus musicale che ne rappresenta la punta di diamante in quanto ad autenticità, sperimentazione, completezza ed esaustività è proprio, paradossalmente, la release del corrente anno, Life Metal, che ha segnato un punto di svolta radicale per la band, che qui allarga ulteriormente la propria palette sonica ed espressiva, inserendo elementi imprevedibili come quelli orchestrali e vocali, seppur mantenendo il clamore e la solennità tipiche del proprio carattere sonico (nonché proprio inconfondibile “sound signature”), rendendo il suddetto disco una pietra miliare della sperimentazione drone, tessuto ad arte e confezionato finemente nella sua forma più autentica da Steve Albini, rendendo Life Metal (e conseguentemente anche il suo “gemello” Pyroclasts) un esperienza sonica trascendentale ed immancabile per l’ascoltatore che, almeno all’interno dell’ultimo decennio musicale, ha avuto l’ardire di scrutare all’interno di sistemi, solo apparentemente, ermetici.