FILIPPO “CAINO” MASINA
Quanti dischi ho (abbiamo) ascoltato negli ultimi dieci anni? Letteralmente, migliaia. Moltissimi trascurabili, alcuni memorabili, pochissimi indispensabili. Ma quei “pochissimi” sono, comunque, una cifra considerevole. C’è voluto del tempo – e, ça va sans dire, un sacco di seghe mentali – per selezionarne solo dieci, secondo un soggettivo e insindacabile criterio: l’importanza di ciascuno di essi sul piano personale, ciò che mi hanno lasciato e che continuano a darmi anche dopo alcuni anni.
Altar of Plagues – Mammal (2011)
Gli AoP hanno riscritto i connotati del black metal. Basterebbe questa considerazione per motivare la loro presenza in questa classifica. Mammal fu il secondo album degli irlandesi, forse un gradino sotto al clamoroso esordio White Tomb (2009) ma, di nuovo, su livelli altissimi, a completare una trilogia imperdibile che comprende anche l’ep Tides. Mammal è un disco ipnotico, in bilico tra rabbia e rassegnazione, denso e opprimente come il clima d’Irlanda.
The Secret – Agnus Dei (2012)
Lungi da ma ogni sentimento sciovinistico, ma devo ammettere che questo disco mi fece pensare, all’epoca: cazzo, ma allora certa roba la sappiamo fare anche in Italia! Conoscevo già i The Secret, ma Agnus Dei fu una grande sorpresa perché fu il disco giusto al momento giusto: il perfetto mix tra black metal e crust che, di lì a poco, avrebbe invaso il “mercato” del metal estremo. I triestini ci sono arrivati prima di altri, con un disco che è una serie di schiaffoni perfettamente piazzati anche grazie alla magistrale produzione di un certo Kurt Ballou.
Regarde Les Hommes Tomber – Regarde Les Hommes Tomber (2013)
Il black francese ha poco da imparare dal resto del mondo, ma i Regarde Les Hommes Tomber non fanno parte della scuola di Antaeus, Aosoth e compagnia satanica: alla furia si preferisce sovente l’introspezione, e non mancano parti post e sludge; insomma si tratta di una band moderna che non teme di mescolare diverse influenze. Per certi versi è un disco forse acerbo, ma pezzi come “Wanderer of Eternity” e “A Thousand Years of Servitude” non possono lasciare indifferenti.
Wolvhammer – Clawing Into Black Sun (2014)
Insieme ai Lord Mantis – altra band che avrebbe meritato di figurare in questo elenco – i Wolvhammer possono essere considerati la band di punta di certo blackened sludge a stelle e strisce. Sudiciume, distorsioni e pessimismo straboccano da questo disco, che segna anche una svolta nello stile della band, che in precedenza era decisamente più black-oriented. La negativa brutalità di questo disco era proprio ciò di cui avevo bisogno, qualche anno fa: ricordo che per settimane nel mio stereo girarono quasi esclusivamente Clawing Into Black Sun e il sottomenzionato disco dei Wiegedood.
Young And In The Way – When Life Comes to Death (2014)
Nati come band hardcore, improvvisamente gli YAITW se ne uscirono con questo disco che, come e forse meglio dei The Secret un paio di anni prima, mescola magistralmente black e crust. Di per sé una miscela esplosiva, qui però portata al parossismo e resa ferale dalla voce abrasiva di Kable Lyall e da una produzione ipercompressa (c’è ancora di mezzo Ballou, ovviamente) che taglia la faccia. When Life Comes to Death contiene undici tracce di violenza incompromissoria, accompagnata però da una decadente atmosfera di fallimento e di resa. (La band ha poi fatto una finaccia, e non abbiamo purtroppo avuto il privilegio di ascoltare il seguito di questo capolavoro.)
Cult Leader – Lightless Walk (2015)
Questo disco è stato per me una vera sorpresa. Ho sempre seguito e apprezzato i Gaza, dalle cui ceneri sono nati i Cult Leader, ma su di loro non avevo particolari aspettative. Invece, Anthony Lucero e compari hanno non solo eguagliato ma, per quanto mi riguarda (e so che non è un’opinione condivisa), superato la vecchia band, aggiungendo alle violentissime coltellate di matrice math-grind la vocalità viscerale e versatile di Lucero, a suo agio anche nelle (rare) parti pulite. Lightless Walk è un disco che mostra apertamente lo schifo della vita e spazza via ogni illusione: è un veder chiaro di cui sento il bisogno.
Mgła – Exercises in Futility (2015)
I polacchi non hanno ovviamente bisogno di presentazioni. Exercises in Futility è semplicemente uno dei dischi black più belli degli anni Duemila, perfettamente bilanciato tra brutalità e melodia – perché la forza della band sono i riff. Ogni canzone è una pietra miliare, accompagnata da testi di un nichilismo assoluto. Il disco tra l’altro giunse in un momento personale particolare, che me lo ha fatto assimilare ancor più profondamente.
Wiegedood – De Doden Hebben Het Goed (2015)
Se si mettono insieme due componenti degli Oathbreaker e uno degli Amenra, ciò che ci si potrebbe attendere sarebbe un progetto malinconico e un po’ melenso, o tutt’al più una roba pseudo-metal da hipster tipo Deafheaven (scusate). E invece, la cospirazione dei tre musicisti belgi ha prodotto uno dei dischi black metal più brutali degli ultimi anni (il primo di una trilogia di altissimo livello, in realtà: cito questo pars pro toto), intenso e soffocante, che trasmette un dolore palpabile. Certo, non c’è sperimentazione, “innovazione” o particolari evoluzioni tecniche: piuttosto, ritmiche e melodie perfette e, soprattutto, un’urgenza comunicativa che proviene dalle comuni radici hardcore dei tre, e che ben pochi gruppi black possono vantare.
Schammasch – Triangle (2016)
Questo disco fu una vera sorpresa. Non avevo mai sentito nominare gli Schammasch prima di allora, e nemmeno mi ricordo come arrivai a questo disco: ma fu una vera folgorazione. Disco triplo, per un totale di novantanove minuti di musica nei quali gli svizzeri toccano una varietà molto ampia dello spettro musicale, dal death/black del primo disco, al black/doom del secondo, infine al dark ambient del terzo, che credo però di aver ascoltato una volta sola (not my cup of tea). Ma nei primi due non c’è una nota fuori posto. Vi porteranno altrove: per chi non li conosce, da recuperare a tutti i costi.
Ulcerate – Shrines of Paralysis (2016)
Se mi chiedete cos’è oggi il death metal, risponderei Ulcerate (dieci anni fa avrei detto Bolt Thrower – rip). Band colossale che non ero mai riuscito a digerire fino in fondo: troppa tecnica, troppi riff claustrofobici, troppo tutto. Poi i neozelandesi si sono presentati con questo disco dove fa capolino la melodia, dove le strutture sono intelligibili anche per menti semplici come la mia, dove si percepisce un afflato epico/decadente che cattura e affascina. E poi, hanno il miglior batterista della galassia. Quando saremo sull’orlo del definitivo collasso della società umana, metterò su “Chasm of Fire” e mi lascerò spegnere quasi felice.