Terzo disco in quattro anni per gli Uada, che – nonostante abbiano forse in pari misura ammiratori e feroci detrattori – vanno ormai considerati tra i punti di riferimento di un certo black metal, quello che ha sempre guardato ai numi tutelari Mgła e Dissection. Dai quali sembra che gli americani vogliano (finalmente?) volersi allontanare. Almeno in parte.
Djinn sembra infatti subito volersi staccare dalle sonorità con cui Jake Superchi & co. sono divenuti noti: la title-track, posta subito in apertura del disco, pare inizialmente un pezzo death rock, e mostra tutto l’eclettismo che la band ha voluto inserire in questa nuova prova in studio. Certo, non tutto è cambiato radicalmente: i pezzi “alla Uada” ci sono, ma in modo meno lineare e “scontato” che nel precedente Cult of a Dying Sun: per chi conosce la band americana brani come “The Great Mirage” e “No Place Here” non risulteranno sorprendenti. Ma in pezzi dall’ampio minutaggio – il più breve si ferma poco sotto i sette minuti – la possibilità di cambiare atmosfere viene colta volentieri, come nel finale della stessa “No Place Here” che è palesemente ispirato agli Schammasch. Insomma, non è che gli Uada si siano dimenticati di essere in fin dei conti una band black (“In the Absence of Matter”), con una certa propensione alla melodia e all’epicità.
Djinn è insomma un disco che spariglia le carte, e tiene insieme in qualche modo sonorità death rock/no wave tipo Beastmilk/Grave Pleasures, gli immancabili Dissection a metà tra Storm of the Light’s Bane e Reinkaos, aggiungendo un pizzico di NWOBHM qua e là. Per chi scrive, un passo avanti rispetto al troppo lineare Cult of a Dying Sun; per tutti gli altri, un motivo in più per continuare ad amarli oppure a detestarli.
(Eisenwald, 2020)
1. Djinn
2. The Great Mirage
3. No Place Here
4. In the Absence of Matter
5. Forestless
6. Between Two Worlds