PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula. (C.F)
EVERY TIME I DIE > RADICAL
A cinque anni di distanza dal precedente Low Teens gli Every Time I Die tornano sulle scene il 22 ottobre 2021 con Radical; 16 tracce in poco più di 50 minuti di pura energia post – hardcore senza compromessi. Il quartetto di Buffalo si riconferma come una band assolutamente solida, capace di costruire un discorso musicale omogeneo e personale e sprigionare una potenza energetica pari a pochi altri esempi nel panorama. Radical è un disco potente e nevrastenico che riesce a far coesistere con camaleontica capacità stili musicali di diverse origini, ma tutto con grande armonia. Dalle parti vocali più sguaiate a quelle più melodiche, dai passaggi più dritti e aggressivi a rarefazioni malinconiche, da tappeti sonori più statici agli immancabili breackdown pesantissimi, tutto viene macinato in un’unica pasta sonora personalissima. Forse gli unici due anelli deboli potrebbero essere la durata leggermente eccessiva (un paio di tracce in meno avrebbero reso l’ascolto più d’impatto) e la scelta artistica della copertina che non rende certamente giustizia alla musica contenuta all’interno. Per il resto, Radical è un disco che merita davvero di essere ascoltato a volumi illegali, tirando testate all’aria e (possibilmente) gridando a squarciagola. (Siro Giri)
BLACK SAAGAN > SE CI FOSSE LA LUCE SAREBBE BELLISSIMO
Nel suo secondo lavoro Samuele Gottarello, in arte Blak Saagan, ha voluto raccontare una storia. Non una storia qualsiasi, ma la Storia, maiuscola obbligata, che ancora oggi, a distanza di più di quarant’anni dal suo epilogo, alberga come uno spettro immobile nei cuori degli italiani. Ha scelto di raccontare i 54 giorni di prigionia di Aldo Moro, episodio nodale e spartiacque del nostro Paese e lo ha fatto attraverso un’opera concettualmente potente ed impattante. SCFLLSB è un disco di eclettica musica ambient strutturata secondo pregiate architetture sonore, in cui una convergenza di svariate contaminazioni viene messa al servizio di una trama narrativa di rara intensità emotiva. Dalle esplorazioni kosmische kraut kraftwerkiane di “Convergenze Parallele” agli echi drone-industrial di “Ore 9: Attacco Al Cuore Dello Stato” fino ai passaggi synth-wave di “Scuola Hyperion”, tutta la materia musicale di cui si compone assume le sembianze di un organismo fluido che sembra arrivare direttamente dalla realtà da cui proviene il concept stesso del disco. Chiari i riferimenti alle colonne sonore dei poliziotteschi settantiani e ai dischi di Library Music di Alessandroni e Umiliani che, grazie all’utilizzo di strumenti prevalentemente analogici come un Farfisa Vip 205, una drum machine Roland TR-606 e sintetizzatori Siel Orchestra e Moog, rifioriscono con un piglio meravigliosamente attualizzato. Un lavoro di straordinaria importanza per il futuro dell’underground italiano, reso possibile grazie anche al lavoro egregio di Maple Death Records, etichetta indipendente in meritatissima ascesa. (Federico Rapisarda)
ARAB STRAP > AS DAYS GET DARK
Prima di questo As Days Get Dark l’ultimo album targato Arab Strap risale all’anno 2005, poi è seguito un lungo periodo in cui Aidan Moffat ha partecipato a diversi progetti musicali; opere che hanno donato un’ulteriore maturità all’artista che infine riunitosi con Malcom Middleton hanno dato vita ad uno dei dischi più intensi della band scozzese. Se per anni abbiamo considerato gli Arab Strap come una band post rock con questo As Days Get Dark siamo portati a guardare ed ascoltare i nostri beniamini in modo molto differente. Scrollandosi di dosso qualsiasi tipo di etichetta Aidan e Malcolm nella loro ultima fatica suonano un art rock prettamente narrativo. Moffat si traveste da menestrello e con la sua voce profonda e confidenziale ci racconta storie tristi e malinconiche, che si aprono solo nei ritornelli profondi e melodici (“Fable of the Urban Fox”). Middleton lo segue con drum machine dai ritmi minimalisti arricchiti da migliaia di suoni ricercati: fiati, violini, chitarre acustiche: la musicalità che pervade questo album dona un grande senso di appagamento all’ascoltatore che viene balzato tra i richiami del post punk (“The turning of our bones”, “Here Comes Camus!”) Lullaby melanconiche e dilatazioni slow core (“Tears on Tour”). La qualità altissima delle undici tracce dell’album ripagano appieno gli anni d’attesa, sperando però di non dover aspettare altrettanto per risentire risentirli all’opera. (Matteo Bozzuto)
BLACK MIDI > CAVALCADE
La seconda fatica dell’ormai trio britannico è un viaggio apocalittico che alterna noise rock a math rock, psych-jazz a folk di reminiscenze “Bowiane” se non addirittura country, il tutto condito da orchestralità schizofrenica. Non ci avete capito nulla? Beh, non fatichiamo a crederlo. Cavalcade è un’allucinazione intermittente accentuata da fiati, archi, voci riverberate e momenti di follia incontrollabile (“John L”, “Hogwash and Balderash”) soventemente contrapposti a momenti più quieti (“Marlene Dietrich”, “Ascending Forth”, “Diamond Stuff”) e ad altri spudoratamente acid-jazz (“Chondromalacia Patella”, “Show”, “Dethroned”). La tensione costruita deframmentando il groove con degli stop and go al limite della nevrosi non disperde l’ascoltatore, ma lo tiene incollato ad un’esperienza che consigliamo a tutti di provare. È impossibile dire che questo sia un lavoro prevedibile: assonanze cacofoniche evolvono su liriche melodiche cerebralmente costituite, strutture da capogiro e abusi indefiniti di accordi di settima fanno sì che un orecchio attento non possa non rimanere ammaliato dalla perizia del combo inglese, in grado di realizzare un lavoro musicalmente eterogeneo, oggettivamente impossibile da catalogare, ma decisamente degno di attenzione di studio. (Alessandro Romeo)
THE BUG > FIRE
A quasi otto anni di distanza dall’ultimo lavoro pubblicato in solo a nome di The Bug, il producer belga Kevin Richard Martin torna in scena con un album affamato e potente, scritto e suonato con una ferocia mai così esternata nei due precedenti lavori. Le tredici tracce di cui si compone Fire, dinamitarda reazione alla situazione pandemica mondiale, sono tredici esplosioni grime-dubstep post-ndustriale e suonano come un’ideale chiamata alle armi contro chi, del mondo che conoscevamo, ha permesso rimanessero solo le ceneri. I pezzi vedono l’avvicendamento di diversi featuring alla voce: dalla sacerdotessa urbana Moor Mother (“Vexed”), alla frenesia di Manga Saint Hilare (“Bang”) fino al distruttivo singolo “Pressure” rappato da Flowdan. Ogni tassello in Fire è un’istantanea di un’apocalisse che viene sbattuta in faccia all’ascoltatore attraverso rime rabbiose ed implacabili incorniciate da un soundsystem i cui bassi sembrano emergere dai cantieri di demolizione di una città distopica al collasso. Con Fire, Martin accantona definitivamente quell’approccio razionale e progettuale osservabile nel precedente Angels & Devils in favore di un disco istintivo, densissimo ed oppressivo suonato per cinquanta frenetici minuti, che funge anche da attacco frontale ad una classe dirigente politica tossica, dando vita ad una delle esperienze d’ascolto più impattanti e significative dell’anno appena trascorso. (Federico Rapisarda)
FLOATING POINTS, PHAROAH SANDERS, & THE LONDON SYMPHONY ORCHESTRA > PROMISES
Non è affatto facile riuscire a cogliere con delle parole l’essenza di Promises, risultato della collaborazione tra menti lungimiranti, talentuose e provenienti da scenari disparati, ma non per questo incapaci di andare d’accordo. I nove movimenti di questo lavoro nascono dall’estro creativo di Floating Points, precedentemente conosciuto per diversi lavori progressive electronic, ma in questo contesto abile nel coordinarsi in composizioni tra jazz e minimalismo. Pezzi jazz in cui è stato fondamentale l’apporto di un sassofonista dall’ottima reputazione quale Pharoah Sanders, in egregia forma nonostante l’assenza di pubblicazioni negli ultimi anni, e gli archi della London Symphony Orchestra. L’ascolto si vive in contemplazione, tra attimi vagamente misteriosi e un filo conduttore che si mantiene costantemente etereo. I 46 minuti di musica sono caratterizzati da una successione di note che si ripete dall’inizio alla fine, nucleo minimalista delle composizioni, in contrasto con le incursioni del sassofono, sempre movimentate, abili nel richiamare l’attenzione. A questo si uniscono gli altri strumenti e l’anima avvolgente degli archi, non sempre in primo piano, ma accorti nel creare continuamente scenari nuovi e affascinanti. Così essenziale, eppure così completo e corposo, Promises è un viaggio a cui è facile approcciarsi, ma questa semplicità non si traduce in prevedibilità, dato che ogni ascolto fa scoprire nuovi scenari. (Jacopo Silvestri)
BIFFY CLYRO > THE MYTH OF THE HAPPILY EVER AFTER
Come funamboli del rock, il trio scozzese Biffy Clyro dimostra ancora una volta di saper stare in perfetto equilibrio tra un suono mainstream propenso a convincere le masse e una attitudine indie rock che non li fa apparire come dei venduti al pubblico della prima ora. The Myth Of The Happily Ever After si presenta come un album molto energico, articolato e ricco di suoni ricercati. Le ispirazioni musicali sono molteplici: dal punk rock pulito e metallico di “A Hunger In Your Haunt”, passando per il folk-grunge di “Holy Water”, le incursioni post-hardcore di ”Errors In The History Of God” e le note struggenti della ballata “Haru Urara”. Le chitarre possenti dal timbro grosso ed i repentini cambi di ritmo si fondono con atmosfere più intimiste, suoni acustici e voci melodiche che portano l’opera verso una deriva pop nel senso più alto del termine. I Biffy Clyro producono musica complessa ma di facilmente assimilabile e incidono un album stratificato dove ogni livello è stato posato con gusto e maturità e che regala nuove prospettive ad ogni ascolto. (Matteo Bozzuto)
JAUBI > NAFS AT PEACE
Nafs at Peace è l’album di debutto del quartetto Jazz di Lahore, Pakistan, Jaubi, realizzato in collaborazione con il flautista londinese Ed “Tenderlonious” Cawthorne e il pianista/compositore polacco Marek “Latarnik” Pędziwiatr (EABS, Błoto). Il lavoro, uscito nel maggio dello scorso anno e registrato in due sessioni senza spartiti scritti, si compone di sette brani improvvisati che costituiscono un’amalgama senza soluzione di continuità di diversi stili, dal Jazz cameristico con sfumature fusion al Raga Indostano. Il risultato è una trasposizione in musica, impeccabilmente eseguita, di una spiritualità dai tratti religiosi che, facendo tesoro delle lezioni stilistiche di mostri sacri del genere, Coltrane e Sanders su tutti, si concentra sul concetto coranico di Nafs, ovvero la dimensione più animalesca dell’interiorità umana, da combattere ed educare gradualmente al fine di perseguire rettitudine ed auto realizzazione. Servendosi di arrangiamenti minimali ed un missaggio asciutto ed impeccabile, il quartetto/sestetto offre una visione d’insieme che gioca molto su atmosfere sovrapposte, passando da jam contemporanee guidate da sarangi e sintetizzatori a ritmiche serrate dal taglio hip-hop, non lesinando con dimostrazioni virtuosistiche che permettono a ciascun brano proposto di fiorire autonomamente. Un lavoro eccezionale di un gruppo di musicisti perfettamente consapevoli del loro talento immersi in un processo di improvvisazione collettiva talmente spontaneo e naturale da farci dimenticare di stare ascoltando un esordio. (Federico Rapisarda)