Con il loro doom metal eclettico e sempre più aperto a svariate influenze, i Messa hanno intrapreso un’ascesa notevole che li ha portati, tra le altre cose, a firmare per Svart Records. Proprio tramite l’etichetta finlandese è uscito oggi, 11 marzo, Close, terzo capitolo di una carriera che continua a sorprendere dopo i già ottimi Belfry e Feast for Water. Per l’occasione abbiamo intervistato la formazione veneta, approfondendo le tematiche e le influenze del nuovo disco e il loro approccio alle proprie creazioni. Buona lettura!
Ciao ragazzi, grazie per la disponibilità e benvenuti su Grind On The Road! Per iniziare l’intervista vi chiederei come vi sentite ora che è in uscita il vostro terzo album, Close, il quale segna anche il vostro debutto per la Svart Records.
Sara: Siamo elettrizzati. E non vediamo l’ora di proporre i brani live.
Proprio la vostra firma per un’etichetta con un seguito notevole quale la Svart ha sicuramente incuriosito molti ascoltatori sin dal momento dell’annuncio del contratto. Com’è nata questa collaborazione?
Sara: Siamo onorati di far parte del roster di questa etichetta, siamo fan di Svart da molti anni. Abbiamo sempre apprezzato l’ampiezza di stili musicali che propongono con le loro uscite, che come i nostri ascolti sono molto variegate. Alcuni dei dischi che apprezziamo di più degli ultimi dieci anni sono usciti per Svart (es. Climax dei Beastmilk e Poverty Metal di Henrik Palm). Possiamo dire che l’interesse è stato reciproco, e da qui è nata la possibilità di pubblicare Close con loro.
Close si presenta con una copertina molto particolare che rappresenta una danza ripresa anche nel video del primo singolo, “Pilgrim”. Come siete venuti a conoscenza di questa tradizione e in che modo vi ha influenzato al punto da avere così tanta rilevanza nell’album? In questo senso è stato molto interessante vedere su Instagram i video-documentari che approfondiscono il tema della danza.
Marco: Abbiamo sposato l’idea di approfondire questo stile di danza/rituale perché traduce in maniera poetica ciò che la musica in Close esprime.
Sara: Sono d’accordo con Marco. Questa danza rituale si chiama ‘Nakh’ ed è tipica della zona al confine tra Algeria e Tunisia. È un ballo praticato solamente da donne, in cui i capelli sono al centro dell’attenzione. I movimenti ripetuti danno alle ballerine un temporaneo stato alterato di coscienza. Siamo venuti in contatto con questa realtà mentre facevamo ricerca per delle possibili idee visuali per rappresentare il disco. La fotografia che abbiamo scelto per la copertina è stata scattata negli anni 30/40 del Novecento, e ritrae appunto delle donne che interpretano il Nakh. Abbiamo pensato subito alle analogie che questa danza ha con l’headbanging e, di conseguenza, è stato naturale inserirla anche nel video di “Pilgrim”. Il lavoro di Saadia Souyah, coreografa e ballerina con cui abbiamo collaborato, è stato fondamentale per raggiungere il risultato che desideravamo.
C’è una forte correlazione tra l’artwork e le tematiche trattate nei testi?
Sara: La copertina di Close è legata all’intero lavoro, dire che è legata solamente ai testi sarebbe totalmente riduttivo. Quando abbiamo scovato quella foto siamo stati vittime del famoso ‘colpo di fulmine’ e abbiamo immediatamente capito che avrebbe rappresentato bene il nostro nuovo album. Pensiamo che riesca a trasmettere tutte le sensazioni che cercavamo di far trasparire dal disco, testi e musica compresi.
La vostra musica è caratterizzata da influenze eterogenee e quattro distinte carriere come musicisti e ascoltatori. C’è qualche nuovo stile che ha ispirato il disco o qualche suo dettaglio?
Alberto: Come abbiamo già detto in altre occasioni, non ci piace ripeterci e vogliamo sempre metterci in discussione cercando di migliorarci. Avendo già utilizzato l’elemento jazz ed il piano in Feast for Water è stato necessario scavare più a fondo per cercare nuova ispirazione. Sono sempre stato appassionato di flamenco e di musica araba. Appena abbiamo capito che la tematica del disco sarebbe stata il viaggio e la musica come mezzo di trasporto è stato naturale attingere da un vocabolario e da una serie di strumenti e sonorità che portassero l’ascoltatore direttamente nel mediterraneo. Un disco recente che sicuramente è stato di ispirazione è Eastern Flowers di Sven Wunder, ma sento di poter citare anche Creuza de Ma di De Andrè come reference, almeno dal punto di vista concettuale.
Marco: Diciamo che in questi due anni abbiamo cercato di sperimentare altri strumenti e sonorità pur mantenendo sempre il nostro onesto approccio da quartetto rock.
Frammenti jazz, attimi psichedelici e un doom che sa essere sia delicato che roccioso, sicuramente in Close ci sono molte sfaccettature che si amalgamano. Come si è evoluta la fase di composizione di questo lavoro?
Alberto: Close ha avuto uno sviluppo lento, ma costante. Per forza di cose, molte parti sono state composte in maniera autonoma da me e da Marco e, solo in un secondo momento, quando possibile, condivise con la band. Questo non significa che le parti non siano state discusse e rielaborate con tutti: rimaniamo una band che lavora molto in sala prove e “coglie l’attimo” per così dire. Cerchiamo di mantenere il nostro approccio anni ’70 nonostante le difficoltà logistiche.
Marco: Per comporre questo disco abbiamo impiegato quasi due anni. Ci sono tracce composte circa 3 anni fa, mentre altre sono state composte addirittura due settimane prima di andare in studio. Le influenze e gli approfondimenti sonori sono frutto di due anni di vita.
Insistendo ancora su questo punto, ho trovato Close il più “compatto” dei vostri dischi, rappresentando forse più delle altre, un’opera da gustare nella sua interezza e come un unico flusso. È un effetto desiderato immagino.
Alberto: Sono contento che tu la pensi così, è esattamente quello che avevamo in mente quando abbiamo concepito il disco. Come ho detto prima, tutto nasce dall’idea del viaggio, pur non essendo un vero e proprio concept album. Un’attenzione particolare è stata prestata alla tracklist in modo che il tutto fosse fluido e un brano portasse naturalmente all’altro. In un certo senso questo ha creato qualche grattacapo in più quando c’è stato da decidere la lista dei singoli. Dare la precedenza ad un brano rispetto ad un altro sembrava un po’ come estrapolare una frase da un discorso più ampio senza rendere il senso generale o addirittura distorcendo il significato originario.
Inoltre, Close amplia ulteriormente gli scenari sonori che avevate creato con i precedenti due dischi, aggiungendo ancora più sperimentazioni e varietà. Belfry e Feast for Water, però, avevano già introdotto molti elementi che qui ritornano e si sente come questo ampliamento sia stato progressivo, con un legame tra le varie uscite. Chiudere i primi due capitoli della vostra carriera quanto ha influenzato la composizione di quest’ultima fatica, in quanto a esperienza e consapevolezza?
Alberto: Ogni tappa ci ha insegnato qualcosa. Credo che, come musicisti, il nostro sia un lavoro in cui non si arriva mai a dire: “ok, so fare tutto e questo è il metodo giusto per fare musica”. E’ tutto un continuo cercare una strada nuova (e possibilmente più bella) per arrivare ad una meta che non è realmente raggiungibile. Siamo sicuramente più consapevoli delle nostre capacità come singoli e di quello che possiamo affermare con la nostra musica.
Alcuni spezzoni del video di “Pilgrim” sono girati in una grotta all’interno della quale avete registrato delle parti del disco. Potete raccontarci questa cosa? Come mai la scelta di quel luogo e per quali strumenti l’avete sfruttato?
Sara: La grotta, di origine carsica, è situata nella zona del Montello, in provincia di Treviso. È un’area collinare non troppo estesa che lambisce il Piave. Al suo interno sono state trovate tracce umane risalenti al Paleolitico. Il caso vuole che questa grotta sia a pochissimi chilometri dallo studio dove stavamo registrando l’album (Outside Inside Studio, Volpago del Montello). Una mattina abbiamo deciso di recarci lì con l’attrezzatura necessaria a registrare degli strumenti acustici (nel nostro caso liuto arabo, voce, percussioni, dulcimer). È stato naturale inserire quel luogo nel video in quanto è entrato totalmente a far parte del disco. I posti in cui viviamo influiscono sul nostro universo creativo fin dall’inizio del progetto Messa.
Avete annunciato due tour, uno in Europa con i Wyatt E. e uno in Italia. Siete emozionati all’idea di tornare sul palco dopo due anni così complicati? Suonerete anche per la seconda volta a un festival di rilievo come il Roadburn, altro traguardo notevole per voi, come vi sentite?
Sara: Assolutamente, fare live ci è mancato molto. La dimensione emotiva che si crea suonando dal vivo è intensa e la riteniamo fondamentale per noi e per il nostro progetto. Siamo onorati di poter suonare nuovamente al Roadburn e siamo contenti di non essere i soli artisti italiani presenti nella line-up di quest’anno. Non vediamo l’ora di andare in tour, sia in Europa che in Italia.
Le atmosfere dei brani sono singolari e sono frequenti le incursioni di vari strumenti (uno su tutti, il sassofono). Questa cosa come vi influenza nel proporre la vostra musica dal vivo? Cercate comunque di rimanere fedeli alle versioni in studio o ci sono casi in cui cambiate le carte in tavola?
Alberto: In un certo senso abbiamo sempre cambiato le carte in tavola. Alcune parti cambiano ad ogni esecuzione e i soli sono sempre improvvisati dal vivo.
Per quanto riguarda Close abbiamo pensato fin da subito a due approcci differenti per i live: uno più fedele al disco con i contributi acustici e degli strumenti a fiato e uno più “rock” dove i vari layer di strumenti sono semplificati a solo chitarra basso e batteria. Tra l’altro è proprio con questo secondo approccio che le canzoni sono nate di fatto. L’idea è di avere un set più rock e con meno fronzoli è quello che un po’ cercavamo fin dalla composizione del disco in realtà.
Domanda volutamente difficilissima: in un mondo così accelerato e frenetico, voi siete una di quelle band che puntano ancora molto sul ruolo della spiritualità nella crescita e nella realizzazione personale. Ascoltando la vostra musica infatti, viene fuori palesemente come l’intento sia di creare un’esperienza extra-sensoriale che faccia in qualche modo “uscire dal corpo”. Come vivete/alimentate questo tipo di ispirazione?
Alberto: Credo che alla base ci sia il nostro bisogno in prima persona di staccarci dalla nostra quotidianità e dai nostri problemi, quello che abbiamo vissuto negli ultimi due anni, la crisi climatica e ora dai venti di guerra in Europa. La nostra musica ci aiuta a viaggiare altrove.
Dal punto di vista del live crediamo sia importante instaurare un certo tipo di atmosfera: l’ascoltatore deve essere calato nella dimensione corretta per poter apprezzare realmente cosa sta per ascoltare. Per questo i nostri live sono sempre una sorta di rituale.
Si chiude qui questa intervista, vi ringrazio nuovamente per la disponibilità. Sentitevi liberi di salutare i nostri lettori come preferite.
Grazie mille a voi, speriamo di incontrarci presto dal vivo!