PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula. (C.F)
WOVENHAND > SILVER SASH
L’ultima opera di David Eugene Edwards, già noto ai più come frontman dei 16 Horsepower, è una collezione di momenti corposamente sacrali. I 9 pezzi di Silver Sash sono densamente ricchi di dettagli sonori che strizzano l’occhiolino a chi apprezza l’ultimo corso degli Swans, senza abbandonare però una forma-canzone che richiama il mondo post-punk di Echo and the Bunnymen, Nick Cave, Ian Curtis e dintorni. Le liturgie tracciate da Edwards rappresentano un viaggio verso la scoperta del trascendente, dal punto di vista di vari popoli, culture, filosofie: la densità di contenuti accompagna sovente anche l’esperienza musicale, sfociando spesso e volentieri in momenti doom che esplodono come macigni di potenza romantica, poetica e, al contempo, perforante. Ed è tra distorsioni taglienti e incedere di ritmi coinvolgenti che risuonano gli eco di riti superstiziosi dell’America centrale, di precisi gesti sacerdotali dell’antico Egitto, di viscerali danze dei pellerossa e sottomissioni a dei di cui i nomi sono ormai dimenticati. Silver Sash è un viaggio ipnotico che fin da “Temple Timber” già riesce a far immergere l’ascoltatore in una sincera esplorazione di una dimensione che non è scontato investigare tramite un disco di musica, in un’epoca colma di distrazioni e, ahinoi, preoccupazioni. (Alessandro Romeo)
CELESTE > ASSASSINE(S)
Senza mai stravolgere il loro stile, i Celeste hanno mantenuto credibilità e costanza in una carriera che con Assassine(s) è giunta al sesto capitolo, e pare proprio che non abbiano intenzione di fermarsi qua. Ci son voluti cinque anni per l’uscita di quest’ultima fatica, la prima pubblicata per Nuclear Blast Records, e addentrandosi nell’ascolto si può capire la cura ai dettagli e le sue molteplici sfaccettature che hanno presumibilmente portato a questa attesa. Il frutto dell’esperienza per la band francese si nota in come col tempo alla rabbia dei primi lavori abbiamo aggiunto maggiore espressività e varietà, tra parti strumentali più dinamiche e svariate sensazioni concentrate in un ascolto apparentemente essenziale, ma in verità molto eterogeneo. I Nostri propongono questo intreccio tra hardcore, black metal e sludge, tre generi accomunati dall’impatto distruttivo e che in questa correlazione trovano molta incisività. Assassine(s) si dimena tra passaggi decadenti e incrementi d’aggressività micidiali, e al suo interno un lavoro melodico raffinato coesiste con ritmiche che si possono associare a dei Gojira più tenebrosi. Arrivati al sesto album i Celeste non cessano la loro evoluzione, continuando a essere un punto di riferimento per i tre generi suddetti, a cui in questo contesto si aggiungono tocchi post metal, evidenti nelle atmosfere delle varie canzoni. (Jacopo Silvestri)
AUTHOR & PUNISHER > KRÜLLER
Da sempre compositore di atmosfere post apocalittiche, Tristan Shone, in arte Author & Punisher, ha continuato negli anni a contornarsi di strani macchinari da lui concepiti che lo hanno aiutato ad esprimersi attraverso suoni industriali e drone sempre più soffocanti. In questa ultima opera, denominata Kruller, assistiamo però ad un interessante cambiamento di rotta, dove le strette maglie sonore vengono allentate per far passare un po’ di ossigeno e di melodia. Senza snaturare il suo stile violento il nuovo lavoro di Author & Punisher risulta decisamente più “umano” grazie anche alla collaborazione di ospiti illustri come Justin Chancellor e Danny Carey, ovvero il bassista ed il batterista dei Tool: questi ultimi attraverso i brani “The Garden of Weeden” e “MISERY” hanno contribuito a rendere la soundtrack dell’album più fluida e più incline al rock. Da segnalare anche la presenza più massiccia di chitarre, scritte e suonate da Phil Sgrosso, che diventano un elemento molto più incisivo rispetto al passato e che si incastrano alla perfezione tra i loop meccanici, distorsioni e beat siderurgici. Segnaliamo infine la presenza di “Glorybox”, pezzo trip hop dei Portishead che qui, abbandona la sua grazia originale per prendere le sembianze di un macigno. (Matteo Bozzuto)
CONVERGE > THE POACHER DIARIES REDUX
La band di Salem non si da pace e dopo l’amato da alcuni e non amato da altri Bloodmoon:I ha deciso di confezionare una seconda edizione di The Poacher Diaries, completamente rimaneggiato e impoverito dei pezzi degli Agoraphobic Nosebleed (era uno split, per i meno informati). Sembra una cosa inutile, ma in realtà no, perché lo split soffriva di un mix veramente disdicevole che affliggeva molto l’ascolto, in quanto quasi non si decifrava la voce dal resto del marasma. Oggi abbiamo questa edizione nuova fiammante in cui tutto è perfettamente scandito e un brano meraviglioso come “Locust Reign” ottiene finalmente la giustizia che merita. “They Stretch For Miles” finalmente è piena e avvolgente, riempita di effetti magici che la rendono spettrale e lo stesso vale per “Minnesota”. Per farla breve, un ottimo regalo per aggiungere un ulteriore tassello alla già bella tappezzata stanza delle meraviglie che è la carriera di questa formidabile band. (Antonio Sechi)
STEFANO PILIA > SPIRALIS AUREA
Nuova produzione per il prolifico Stefano Pilia. Genovese di nascita e bolognese di adozione, con il nuovo Spiralis Aurea abbandana (momentaneamente) l’approccio impro noise e si avvale di ottimi collaboratori (Silvia Tarozzi, Mattia Cipolli, Ensemble Concordanze, Elisa Bognetti, Enrico Gabrielli, Valeria Sturba e molti altri) per scrivere un disco che sprigiona sacralità. Stefano racconta che tutto è nato quando ha visitato il cimitero tedesco al passo della Futa: un enorme monumento ai caduti voluto dalla Germania dal fortissimo impatto visivo grazie alle sue geometrie. Il lavoro diviso in due parti apre le danze con la paranoia di “Crux” che pesca a piene mani dall’immaginario più di avanguardia dei primi Tangerine Dream periodo Birth Of Liquid Plejades. Questa sensazione di paranoia diventa solennità in “CodeXIII” che si espande placidamente in tutta la sua durata seguendo una progressione armonica derivante dalla sequenza di Fibonacci. Questo approccio armonico accompagnerà il dipanarsi dell’intero lavoro, donando una ulteriore aurea mistica. Difficile trovare un brano debole, ogni traccia trasmette qualcosa a chi ascolta che porta a fascinazioni antiche (“Spiralis”) e sacre(“Ouroboros”). Quello che colpisce e resta è la sensazione di sublime tristezza che pervade ogni singola traccia, che siano viole, violini, synth, fiati, pianoforte tutto ha una estrema coerenza narrativa. Per chi scrive questo è il vertice creativo dell’artista. (Diego Ruggeri)
THIEF > THE 16 DEATHS OF MY MASTER
Sedici pezzi, sedici modi diversi di celebrare la morte del proprio Io, della propria anima, del proprio essere. Il losangelino Thief (Dylan Neal, ex Botanist) mette in musica un vero e proprio incubo, un dipinto surrealista cangiante e fumoso, nel quale si intrecciano elettronica, industrial, gothic, trip-hop, synth-wave, canti gregoriani, musica classica, alternative, pezzi pieni di oscuro groove da dancefloor. Le pulsazioni si insinuano sotto la pelle, il disco si agita febbrile e colpisce come un maglio nei denti con i suoi primi otto brani, otto gemme tremende e diverse l’una dall’altra, ma tutte allo stesso modo possibili singoli. C’è un cedimento e un momento di stanca nella prima parte della seconda metà, controbilanciato da una chiusura ai livelli dei brani posti in apertura: del tutto naturale vista la lunghezza e complessità del disco, e va bene così. The 16 Deaths Of My Master è sporco, buio, è un vestito di latex nero come la pece che avvolge, stritola ma che riesce a rendere sensuali anche le più oscuri parti della nostra mente. (Federico Botti)
USTALOS > BEFORE THE GLINTING SPELL UNVESTS
L’ascolto di Before the Glinting Spell Unvests è un viaggio scabroso e ipnotico, così affascinante seppur per niente rassicurante, che certifica le capacità di Will Skarstad, mastermind della one-man band Ustalost. Il nome del musicista potrebbe essere già familiare ad alcuni essendo il co-fondatore degli Yellow Eyes, altra formazione dal valore notevole in cui milita anche il fratello Sam come altro chitarrista, il quale in questo contesto ha contribuito come produttore e scrittore dei testi. Lo stile delle due band è in stretta correlazione, con atmosfere imponenti che dominano l’ascolto e una produzione grezza che le fortifica rendendole ulteriormente abrasive. I sei brani si dimostrano in grado di approfondire ancora di più questo stile, con un lavoro a livello strumentale ineccepibile che domina l’ascolto e gli permette di fare un netto salto di qualità. Melodie taglienti irrompono a più riprese, creando intrecci ipnotici, mentre il basso è in primo piano come difficilmente si sente in un disco black metal e dei sintetizzatori contribuiscono alla controparte onirica del lavoro. Questo disco è un tripudio angusto e ammaliante che a ogni ascolto rapisce nelle sue trame uniche, continuando a espandere gli orizzonti di questo progetto, seguace fedele della band principale di Will Skarstad e ormai stabile sugli stessi livelli qualitativi. (Jacopo Silvestri)
ANIMALS AS LEADERS > PARRHESIA
Siamo al quinto full per gli Animals As Leaders, questo trio dalla tecnica sopraffina è dal lontano 2009 che sforna lavori molto caratteristici. Parrhesia arriva nel 2022, un periodo storico per la musica in cui vediamo rinascere molte realtà andate perse nel tempo, ma allo stesso tempo una staticità silenziosa nel reparto djent, questo presumo perché in buona sostanza questo genere ha detto tutto quello che poteva dire in pochissimo tempo, fino a prova contraria. La band di Tosin Abasi e compagni non è per nulla esonerata da questo pensiero. Lo dico da amante della tecnica estrema e da persona che ha amato questo genere fin da quando ha visto la luce: ABBIAMO CAPITO! Ora acidità a parte, pezzi come “Gestaltzerfall” o “Conflict Cartography” sono tutte robe già sentite. Dove? In Weightless? In The Joy Of Motion? O ancora in The Madness Of Many? Non saprei dirlo perché alla lunga quello che fanno questi tre (con tutto il rispetto per le loro capacità che sono veramente impressionanti) inizia ad assomigliarsi tutto. Detto questo, bisogna dire che tutto sommato è un ascolto piacevole, come sempre certo, ma monocromatico nella sua multicromìa. A questo punto della loro carriera mi viene da pensare che sia roba per appassionati e basta. (Antonio Sechi)