PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula.
MOTORPSYCHO > ANCIENT ASTRONAUTS
Ancient Astronauts è nato da due collaborazioni che i Motorpsycho hanno avuto nel periodo del lockdown a causa della pandemia Covid, una con la compagnia teatrale De Utvalgte (per il progetto di un film in uscita, da cui è stato estratto un frame per la realizzazione della copertina del disco) l’altra con Homan Sharifi e la compagnia di danza Impure Dance Company. Il risultato è un lavoro di 4 tracce registrate in presa diretta e prodotto dallo storico collaboratore Deathprod, fautore, come i più agguerriti fan dei Motorpsycho ricorderanno con varie lacrimucce, di moltissimi episodi notevoli della storia musicale del combo norvegese, grazie anche alla sua perizia elettronico-campionaria. L’influenza di quest’ultimo è infatti palese nell’ultima traccia di questo album “Chariot of the Sun”, una composizione strumentale bellissima che, come si suol dire, val da sola il prezzo del biglietto. Nei 22 minuti e rotti della canzone si passa da atmosfere soffuse e fiabesche a una vera e propria cavalcata psych-rock ispiratissima che non può lasciare indifferenti. Le ritmiche ossessivamente kraut-rock rappresentano un incedere perfetto per momenti cinematicamente composti per uno spettacolo di danza, tra sciabolate cosmiche e passi introspettivi colmi di sacralità silvestre. Le altre tracce si muovono invece su coordinate già ampiamente esplorate negli ultimi lavori degli artisti norvegesi, figlie probabilmente delle sessioni di The All is One o Kingdom of Oblivion, tra velate influenze crimsoniane (“Mona Lisa Azrael”) e solite cavalcate sabbathiane (“The Ladder”). Si conferma quindi la tendenza dei Motorpsycho a produrre composizioni di qualità anche nei momenti meno ispirati, aggiungendo, ad ogni lavoro, una o più chicche che meritano di dar considerazione ad ogni lavoro dei nostri. Di questi tempi è comunque tanta roba e ringraziamo. (Alessandro Romeo)
KEN MODE > NULL
Uscito il 23 di settembre, pubblicato per la Artoffact Records, l’ennesimo capitolo di una delle band più blasonata di Winnpeg che dal 1999 ci ha spiegato la linea di confine fra il metal e la noise. Una diversa chiave di lettura di cui sono i pilastri se non i precursori. In Null è nel mezzo di vecchio e nuovo, con la continuazione di quello che è stato “Loved” del 1999 e l’aggiunta di Kathrynn Kerr predominante al sassofono e synth. Per continuare quella che è una demolizione del suono fatta di muri e lo strazio di Jesse Matthewson che non delude ritrovando un’incredibile energia decisamente più aggressiva. Il singolo “A Love Letter” che preannuncia l’uscita del disco, tutt’altro che una lettera d’amore, da ampio fiato alla nuova pelle della band non tralasciando il metodo classico che non deluderà i fan storici e nuovi del gruppo. Classicismo, si diceva e una tendenza all’innovazione e cercare una direzione sperimentale come in “The Tie” dove i synth fanno da tappeto in un disperato groviglio di suoni, o rumori, dove Jesse non fa altro che decantare strazianti urla in quattro quarti. Chitarre distorte e sample lontani di sottofondo chiudono il cerchio e completano il tutto. (Alex Marano)
BLOODBATH > SURVIVAL OF THE SICKEST
Può un disco death metal essere “divertente”? Se per voi questo termine significa “intrattenente” e “capace di farvi provare gusto”, Survival of the Sickest è il gioiellino che fa al caso vostro. Dopo il (quasi) passo falso The Arrow of Satan Is Drawn, i Bloodbath tornano alle origini e ci regalano un vero e proprio rullo compressore fatto musica. In un mondo di sottogeneri estremi che non fa altro che evolvere di giorno in giorno, gli svedesi decidono di fregarsene totalmente e scelgono di glorificare come si deve la vecchia scuola death metal scandinava e americana. È per questo che in pezzi come “Zombie Inferno”, “Putrefying Corpse” o “Malignant Maggot Therapy” potrete sentire chiari i riferimenti a Morbid Angel, Entombed o Dismember, ovviamente rivisti in chiave più moderna per non cadere nella trappola del citazionismo più piatto, ma al contrario creando una vera formula Bloodbath. Senza fermarsi neanche per un secondo, Survival of the Sickest farà contenti tutti i palati: dagli amanti del death metal anni ’90 agli avventori più giovani, magari facendo loro scoprire la grandezza della band e degli ospiti presenti nel disco. Un ritorno graditissimo. (Paolo Cazzola)
COHEED AND CAMBRIA > VAXIS II: A WINDOW OF THE WAKING MIND
Un bravo recensore deve essere totalmente imparziale e attenersi ai fatti, ai dettagli oggettivi. Ma come faccio a non dire che ascoltando questo disco ho pianto più volte pensando al fatto che questa band una volta troneggiava tra i miei ascolti favoriti? I Coheed And Cambria sono molto cambiati, non nella natura della loro essenza perché quella è sempre la stessa e riconoscibile grazie al cielo, ma la voglia di sperimentazione li ha portati a fare scelte molto infelici. Vexis II è un disco che conserva molto poco della carica storica della band di Claudio Sanchez, in pratica “The Liars Club” è uno dei rari pezzi che fanno sentire qualcosa, che fanno gioire perché si sta ascoltando una band che ha saputo unire un rock da radio a un pop punk per niente imbarazzante a della composizione intelligente e dello spirito metal. Invece qui troviamo pezzi con inserti sintetici da house del 2000. E niente, essenzialmente si tratta di un lavoro grosso, ma molto poco ispirato. Certo, colmo di lyrics meravigliose come Claudio sa scriverne, ma, tutto il resto, ripeto fa piangere. (Antonio Sechi)
CHAT PILE > GOD’S COUNTRY
Terrore, disperazione e antagonismo. God’s Country ha il magico potere di toccare le manopole che amministrano l’orrido dentro. Il significato stesso di Chat Pile, cumoli di rifiuti da estrazione contaminati da metalli pesanti come il piombo che si trovavano presso le mine di Picher, Oklaoma, città che da i natali alla band. Pubblicato il 28 di luglio 2022 per la Flenser Records il disco va a coronare le promesse dei precedenti EP: Remove Your Skin Please e This Dungeon Earth, entrambi datati 2019 rigorosamente autoprodotti, poi pubblicati in un’unica edizione dalla Reptilian Records nel settembre 2020. Il disco si può sintetizzare come un delirio sludge metal e noise, 90s sound e poetica ammiccante su pile impolveriate dei racconti di Landsdale e la fase iniziale di Palahniuk. Fra i classici “chug” di chitarra ed estreme dissonanze che ricordano le tracce conclusive dei Daughters di You Won’t Get What You Want (giusto per intenderci sto parlando di “Ocean Song” e “Guest House”). God’s Country è un disco ossessivo e pregno di riferimenti autobiografici, autoanalisi in prima persona di figure deliranti e critica lucida dei nonsense della società post-Covid in US. Pilastro portante di tutto sono i testi e l’interpretazione stessa di Raygun Busch, che con una visione lucida e una cronaca meticolosa degli eventi, riesce ad incutere nell’ascoltatore sconforto e in generale una profonda tristezza. “Why” è di gran lunga uno dei brani più rappresentativi dei Chat Pile e sembra voler sfidare l’opinione pubblica interrogandola: “Why people have to live outside / We have the resources // We have the means”. (Alex Marano)
PORCUPINE TREE > CLOSURE/CONTINUATION
Il ritorno sulle scene degli inglesi dopo 13 anni di distanza dal poco ispirato e prolisso The Incident è una delle note liete di quest’anno musicale. Closure/Continuation non rappresenta sicuramente il miglior episodio della carriera dell’ormai trio orfano del bassista Colin Edwin, ma può figurare come un piacevole ritorno. Il lotto alterna momenti particolarmente ispirati (“Harridan”, “Dignity”, “Chimera’s Wreck”, “Population Three”) ad altri leggermente sottotono (“Walk the Plank”, “Never Have”). Nulla di trascendentale per carità, ma l’ultima fatica dei Porcupine Tree rappresenta un tassello aggiunto alla discografia dei nostri che sicuramente è degno di menzione. Non può infatti non coinvolgere la prova mastodontica dell’indispensabile Gavin Harrison dietro le pelli, che rende memorabile qualunque groove con tocchi di classe sopraffina e sempre più nell’olimpo degli specialisti dello strumento. Di contro alcune composizioni soffrono di patologico autocitazionismo in quanto ricordano molto alcuni episodi solisti di Wilson o passati lavori dei nostri, ben conditi, se non mascherati, dal lavoro di arrangiamento del solito e fondamentale Richard Barbieri. Inoltre è vero che il basso è presente con un suono più aggressivo e artefice di scelte compositive tutto sommato pregevoli, ma questo sembra quasi voler compensare la mancanza di fantasia e gusto del già citato Edwin. Closure/Continuation rimane inevitabilmente ingiudicabile dal punto di vista della novità musicale: rappresenta un sunto di quanto sentito finora o un nuovo punto di partenza? Sicuramente conferma però i Porcupine Tree come alfieri encomiabili della musica relativamente mainstream: non il singolo usa e getta amato dalle piattaforme, ma un viaggio, un’esperienza, una chimera. (Alessandro Romeo)
A HOPE FOR HOME > YEARS OF SILICON
Rivedere spuntare dal nulla gli A Hope For Home fa uno strano effetto. Autori di un bellissimo lavoro di post-hc/post-metal datato 2011, quell’In Abstraction che sembrava averli lanciati nell’olimpo di suddetti generi assieme a band come Devil Sold His Soul, Underoath e The Elijah, si erano poi perse le tracce dei Nostri… Fino ad ora, quando se ne escono con un nuovo album (un EP lungo se vogliamo essere precisi) dal titolo Years of Silicon, che ce li fa ritrovare esattamente dove li avevamo lasciati. Quindi delicatissimi arpeggi nebbiosi inframmezzati da crescendo di malinconia agro-dolce, tipica del post-rock degli Explosions in The Sky. Climax che maturano ed esplodono con bordate spesso furiose ma mai caotiche, con una “Unlit Beacon” che pare essere uscita dalle sessioni di registrazione di In Abstraction tali sono i suoi punti in comune con molti dei pezzi che costituivano quel gran disco. Una proposta quella degli A Hope for Home cristallizzata nel tempo, nel bene e nel male dato che certe sonorità hanno visto la loro massima ascesa proprio una decina di anni fa, ma non per questo da lasciarsi sfuggire soprattutto ora che andiamo incontro alle stagioni più malinconiche dell’anno. (Federico Botti)
BLEED FROM WITHIN > SHRINE
I Bleed from within non hanno mai abituato bene gli ascoltatori più esigenti. Certo che per la legge dei grandi numeri ci sono persone che li ascoltato e se li godono (stando a Spotify almeno 300.000 persone). Io non sono nessuno per giudicare i gusti musicali delle persone, ci mancherebbe, ognuno è libero di ascoltare anche l’eco del gorgogliar dei propri succhi intestinali, ma siamo seri un momento: Shrine, ultima uscita della band in questione è l’ennesima copia di Uprising. Non serve nemmeno approfondire più di tanto il discorso, ma giusto per fare il recensore corretto che non dice che un disco è brutto perché sì, beh vediamo. I riff sono anonimi e riciclati, la composizione non trasmette alcuna personalità se non quel leggero brividino da moderna estremità che ha un sapore troppo simile a quello degli Unearth. E mi rendo perfettamente conto che per molti questo pezzo è un colpo di cannone sulla croce rossa, ma certe cose vanno dette. Dai non è più il 2010, queste cose puzzavano di vecchio già un decennio fa. (Antonio Sechi)